Caro ministro, «imprescindibile» è la vita umana (e non il taser)
La pistola elettrica è una scorciatoia: servono protocolli, strategia e formazione

Due morti dopo la scarica elettrica di una pistola che si vorrebbe “non letale”, anzi qualificata come “strumento imprescindibile” dal ministro dell’Interno. Sulla scena, altrettanti interventi di forze dell’ordine – il primo a Olbia e l’altro a Genova – compiuti da carabinieri per sedare due persone dal comportamento aggressivo e percepito come pericoloso dal contesto sociale dove si era manifestato. Invero, l’aggettivo “imprescindibile” andrebbe riservato alla vita umana. Una qualifica così netta – riservata a un congegno comunque di violenza – porta a concludere che non si poteva operare diversamente?
Non sfugge che gli operatori di polizia siano costretti a decidere nel tempo strettissimo di un’emergenza. Gli scienziati del comportamento umano (per esempio Daniel Kahneman) sostengono che la scarsità di opzioni è la matrice di tanti errori quando si è obbligati a decidere nell’azione di forza. Ma proprio per questo sono state create organizzazioni specializzate, si provvede a formare le professionalità di chi agisce sul campo, si mettono a punto metodiche scrupolose affinché tutto sia proporzionato. E ovviamente si emanano direttive dettagliate, mentre vige la responsabilità, individuale e istituzionale, di evitare “risonanze” che distorcono. Per esempio, con sommarie dichiarazioni politiche pro e contro l’azione “comunque” della forza pubblica.
Intanto occorre porre attenzione a un fattore non trascurabile: la stagione dei due episodi tragici. L’estate amplifica fragilità e conflitti: aumentano liti domestiche e femminicidi, comportamenti disordinati, episodi di escandescenza nelle strade e nei condomìni, si moltiplicano contegni disinibiti ed esasperati, come il consumo di alcol, stupefacenti. Il caldo e gli eccessi, di giorno e nelle notti della cosiddetta movida. E poi, le città si svuotano, i servizi territoriali rallentano, la solitudine sociale pesa di più su chi è già vulnerabile. In questo contesto, la risposta di sicurezza non può essere appiattita su dispositivi e conteggi statistici – quante pattuglie, quante telecamere, quanti fermi e controlli – ma deve misurarsi con la particolare complessità stagionale dei problemi di sicurezza urbana.
Il pericolo, dunque, di interventi inappropriati o sproporzionati è accresciuto dalla pretesa utilizzabilità di “dispositivi tecnologici”. A cominciare per l’appunto dal taser, che non è un’arma innocua. In un soggetto giovane e in buona salute l’effetto può essere transitorio, ma in presenza di fragilità – cardiologiche, neurologiche, psichiatriche, o di assunzione di sostanze – diventa molto rischioso. E sono proprio persone in queste condizioni ad essere frequentemente al centro degli interventi di ordine pubblico. Occorre, dunque, un codice d’uso rigoroso: su homeless, tossicodipendenti e soggetti in evidente stato di alterazione non si dovrebbe mai ricorrere al taser.
Più in profondità, va criticata la scorciatoia cognitiva per cui si attribuisce a un oggetto tecnico un potere quasi risolutivo. È una forma di feticismo: al posto di una strategia di servizio – protocolli, équipe, formazione, coordinamento con i servizi sociali e sanitari – si brandisce un alibi tecnologico. Così si rinvia il lavoro più impegnativo: migliorare competenze, affinare tattiche di de-escalation, costruire catene di aiuto interistituzionali.
Va detto senza mezzi termini che occorre sospendere la dotazione operativa del taser nei mesi estivi. Anzi, gioverebbe un censimento nazionale per verificare l’eccessiva distribuzione di tale congegno, poiché sono ben note le operazioni di marketing per indurre, anche i Comuni, a dotarne gli stessi agenti di polizia locale. Si moltiplicano peraltro i casi, e in vari contesti, dove il rischio certo sopravanza il beneficio certo. Se la tecnologia illude di fornire la soluzione breve, le situazioni complesse richiedono professionalità altissima e supporti specialistici: psichiatri, psicologi, assistenti sociali. Servono protocolli territoriali sottoscritti tra forze di polizia, salute mentale e servizi sociali, con procedure chiare per l’intervento congiunto.
C’è poi un tema strutturale: la formazione e i percorsi di reclutamento del personale di polizia, che hanno bisogno di un centro didattico qual si richiede a una professione di aiuto. Il servizio di polizia è “civile” ed ben altro da quello “militare”. Ebbene, venticinque anni fa, quando si sospese la leva obbligatoria nelle Forze armate, si aprirono corsie preferenziali per l’assunzione successiva nei corpi di polizia per chi avesse prestato servizio nell’esercito, spesso in teatri di crisi. Persone con alle spalle un’esperienza dura e spesso traumatica. Al termine di quest’incombenza, spesso all’età di trentacinque anni, riorientare la propria cultura professionale, forgiata da procedure di ingaggio militare, per poter svolgere un servizio civile di prossimità – prevenzione, soccorso, relazione con popolazioni fragili – risulta assai arduo, e richiede percorsi formativi dedicati, affiancamento, supervisione psicologica, addestramento alla comunicazione con l’utenza. Tutte competenze e fattori che richiedono di essere curate con programmi di formazione e con la supervisione più accurati.
Come si vede, ha poco senso il quesito «hanno fatto bene o hanno sbagliato a ricorrere al taser». Passare dalla tecnologia alla responsabilità significa ammettere che nessun dispositivo, da solo, può sostituire la cultura del servizio. In estate – e non solo – la sicurezza si fa in rete, con intelligenza situazionale, competenze interdisciplinari e una presenza umana capace di prevenire, disinnescare, accompagnare.
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