Camilleri a 100 anni dalla nascita vive (anche) nei cloni di Montalbano
Lo scrittore, morto nel 2019, aveva creato il personaggio che ha spopolato in tv. E che l'ha poi animata di "copie" come Rocco Schiavone, Imma Tataranni e Lolita Lobosco

Che cosa rimane di Andrea Camilleri, a cento anni dalla nascita (Porto Empedocle, 6 settembre 1925) e appena sei dalla morte (Roma, 17 luglio 2019)? Molto, indubbiamente, perché i suoi libri continuano a essere letti e ristampati e le trasposizioni televisive dei suoi gialli continuano periodicamente a essere riproposte. Camilleri ha scritto fine alla fine, oltre un centinaio di titoli tra romanzi, raccolte di racconti, saggi e testi teatrali. Anche quando la maculopatia lo aveva reso quasi cieco ed era costretto a dettare le sue storie alla premurosa assistente Valentina Alferj. «Dicono tutti che io scrivo troppo», ci aveva confidato, «però non so che farci. Nel momento in cui smetterò di scrivere credo che avrò poco da fare su questa terra. Cerco di allungarmi la vita scrivendo».
Si era allungato la vita, Camilleri, ma aveva deciso per tempo di troncare quella del suo personaggio più famoso. Il passo d’addio del commissario Salvo Montalbano era pronto fin dal 2005, quando la serie era appena a un terzo del suo sviluppo (nove romanzi su ventotto). Riccardino sarebbe uscito postumo, nel 2020 da Sellerio, come da indicazioni dell’autore: che, pur annunciando l’intenzione di smettere, si lasciava aperta la possibilità di sfruttare ancora la propria creatura letteraria, mettendola però al riparo da quelle malinconiche riprese per mano altrui a cui erano andati incontro personaggi come Sherlock Holmes e Hercule Poirot, Nero Wolfe e Philip Marlowe, o in anni più recenti James Bond e gli eroi delle saghe di Stieg Larsson, Robert Ludlum, Tom Clancy. Per questo, come un prestigiatore che svela i suoi trucchi, non aveva banalmente scelto di far morire Montalbano – che non sarebbe stata una soluzione, perché la storia della letteratura abbonda di resurrezioni: aveva congegnato un meccanismo teatrale, una sorta di metaromanzo pirandelliano in cui il Personaggio incontra il suo doppio televisivo e a un certo punto entra in conflitto con l’Autore, producendo un corto circuito che ne svela la natura finzionale e smonta dall’interno il gioco narrativo rendendolo indisponibile per ulteriori fruizioni.
Camilleri è riuscito nell’intento, però Montalbano e i suoi compagni d’avventure si sono moltiplicati, sotto travisate spoglie, disseminandosi per il Belpaese. Una folla di commissari, commissarie, vicequestori e vicequestore si accalca nelle librerie, ognuno con la sua personalità invariabilmente complicata, i tormenti privati (in genere, ma non solo, di ordine sentimentale), idiosincrasie e manie assortite. E così si può dire che di Camilleri rimane molto più di quanto ci ha lasciato. Rimangono i cloni che indefessamente rideclinano il modello, cristallizzando il canone del nuovo giallo all’italiana: sapida coloritura locale, un pizzico di critica sociale, qualche variazione comica, e sopra ogni cosa l’introspezione del protagonista.
Lo schema è ben riconoscibile. Montalbano è umorale, spigoloso, caustico, eccessivo, oltreché di saldi valori morali: in dosi variabili e con moderati aggiustamenti gli stessi caratteri si riproducono nei suoi emuli. Per citare i più noti: da Rocco Schiavone, viceispettore romano trasferito per punizione ad Aosta, sgorgato dalla tastiera di Antonio Manzini; alla materana Imma Tataranni di Mariolina Venezia (scrittrice che dopo il Campiello vinto con una saga famigliare lucana ha virato sul più redditizio genere giallo); alla barese Lolita Lobosco di Gabriella Genisi (che non nasconde la dipendenza da Montalbano e lo fa intervenire telefonicamente nei suoi romanzi); alla catanese (ma originaria di Palermo, mentre Montalbano è originario di Catania ma trasferito nell’immaginaria Vigàta) Vanina Guarrasi di Cristina Cassar Scalia.
Tuttavia queste sono ancora caratteristiche generiche: scendiamo più nel dettaglio. Montalbano è insofferente delle regole, in perenne conflitto con la tecnologia, la burocrazia e il questore Bonetti-Alderighi: allo stesso modo Rocco Schiavone, più burbero e cupo, ignora o distrugge le carte da firmare, si affida più all’intuito e ai rapporti umani che ai protocolli e tende a risolvere “creativamente” i casi bypassando, quando serve, la legalità; mentre Vanina Guarrasi e Imma Tataranni devono vedersela con i magistrati che rallentano le loro indagini, e Lolita Lobosco si confronta quotidianamente con la diffidenza maschilista dei superiori. Montalbano è vorace, ama la cucina, segnatamente quella siciliana: la stessa che riaffiora nelle storie di Vanina Guarrasi, mentre Lolita Lobosco predilige quella pugliese, e una buona forchetta (quanto meno nella trasposizione televisiva, a confermare la contagiosità del topos) si rivela anche Imma Tataranni, che reagisce alle limitazioni di un fisico non proprio avvenente con la mania dei vestiti eccentrici. Alla passione per il buon cibo, invece, Schiavone sostituisce quella per le canne fumate di nascosto e la fissazione per le Clarks ostinatamente calzate anche sulla neve: variazioni sul tema.
Ma il paradigma Montalbano non si limita alla caratterizzazione del protagonista: lo schema prevede una serie di figure di contorno che sono in realtà ipostasi della medesima funzione narrativa. C’è il sottoposto/aiutante solerte e affidabile, che nell’originale è l’ispettore Fazio, mentre al fianco di Imma Tataranni si ripresenta nelle vesti del maresciallo Ippazio Calogiuri, accanto a Schiavone è l’agente Antonio Scipioni, e nelle storie di Vanina Guarrasi è l’agente Carmelo Spanò (ma a ricoprire il ruolo provvede anche l’anziano commissario in pensione Biagio Patanè). C’è il sottoposto imbranato o un po’ tonto (ma occasionalmente provvidenziale) che fa da contrappunto comico: dal Catarella di Montalbano all’agente scelto Ugo Casella di Schiavone, al Mimì Calogero di Vanina Guarrasi. Ci sono anche, qua e là, dei succedanei di Mimì Augello (la figura dello sciupafemmine) e perfino dell’agente Galluzzo (ossia la guida spericolata: un’altra figura imprescindibile nei frequenti spostamenti in auto).
La ricetta è semplice, di (facile) successo. Nella ripetizione, magari, un tantino stucchevole. Ma non si tratta necessariamente di una pedissequa imitazione: non lo è quando sa riempirsi di contenuti originali, credibili, “veri”, come pure (non sempre) accade. E del resto, se tutti gli scrittori russi sono usciti dal cappotto di Gogol (Dostoevskij dixit), non potremo sostenere che tutti i nuovi giallisti italiani escono dalla sigaretta di Camilleri? Purché a lungo andare non resti soltanto il fumo.
Si era allungato la vita, Camilleri, ma aveva deciso per tempo di troncare quella del suo personaggio più famoso. Il passo d’addio del commissario Salvo Montalbano era pronto fin dal 2005, quando la serie era appena a un terzo del suo sviluppo (nove romanzi su ventotto). Riccardino sarebbe uscito postumo, nel 2020 da Sellerio, come da indicazioni dell’autore: che, pur annunciando l’intenzione di smettere, si lasciava aperta la possibilità di sfruttare ancora la propria creatura letteraria, mettendola però al riparo da quelle malinconiche riprese per mano altrui a cui erano andati incontro personaggi come Sherlock Holmes e Hercule Poirot, Nero Wolfe e Philip Marlowe, o in anni più recenti James Bond e gli eroi delle saghe di Stieg Larsson, Robert Ludlum, Tom Clancy. Per questo, come un prestigiatore che svela i suoi trucchi, non aveva banalmente scelto di far morire Montalbano – che non sarebbe stata una soluzione, perché la storia della letteratura abbonda di resurrezioni: aveva congegnato un meccanismo teatrale, una sorta di metaromanzo pirandelliano in cui il Personaggio incontra il suo doppio televisivo e a un certo punto entra in conflitto con l’Autore, producendo un corto circuito che ne svela la natura finzionale e smonta dall’interno il gioco narrativo rendendolo indisponibile per ulteriori fruizioni.
Camilleri è riuscito nell’intento, però Montalbano e i suoi compagni d’avventure si sono moltiplicati, sotto travisate spoglie, disseminandosi per il Belpaese. Una folla di commissari, commissarie, vicequestori e vicequestore si accalca nelle librerie, ognuno con la sua personalità invariabilmente complicata, i tormenti privati (in genere, ma non solo, di ordine sentimentale), idiosincrasie e manie assortite. E così si può dire che di Camilleri rimane molto più di quanto ci ha lasciato. Rimangono i cloni che indefessamente rideclinano il modello, cristallizzando il canone del nuovo giallo all’italiana: sapida coloritura locale, un pizzico di critica sociale, qualche variazione comica, e sopra ogni cosa l’introspezione del protagonista.
Lo schema è ben riconoscibile. Montalbano è umorale, spigoloso, caustico, eccessivo, oltreché di saldi valori morali: in dosi variabili e con moderati aggiustamenti gli stessi caratteri si riproducono nei suoi emuli. Per citare i più noti: da Rocco Schiavone, viceispettore romano trasferito per punizione ad Aosta, sgorgato dalla tastiera di Antonio Manzini; alla materana Imma Tataranni di Mariolina Venezia (scrittrice che dopo il Campiello vinto con una saga famigliare lucana ha virato sul più redditizio genere giallo); alla barese Lolita Lobosco di Gabriella Genisi (che non nasconde la dipendenza da Montalbano e lo fa intervenire telefonicamente nei suoi romanzi); alla catanese (ma originaria di Palermo, mentre Montalbano è originario di Catania ma trasferito nell’immaginaria Vigàta) Vanina Guarrasi di Cristina Cassar Scalia.
Tuttavia queste sono ancora caratteristiche generiche: scendiamo più nel dettaglio. Montalbano è insofferente delle regole, in perenne conflitto con la tecnologia, la burocrazia e il questore Bonetti-Alderighi: allo stesso modo Rocco Schiavone, più burbero e cupo, ignora o distrugge le carte da firmare, si affida più all’intuito e ai rapporti umani che ai protocolli e tende a risolvere “creativamente” i casi bypassando, quando serve, la legalità; mentre Vanina Guarrasi e Imma Tataranni devono vedersela con i magistrati che rallentano le loro indagini, e Lolita Lobosco si confronta quotidianamente con la diffidenza maschilista dei superiori. Montalbano è vorace, ama la cucina, segnatamente quella siciliana: la stessa che riaffiora nelle storie di Vanina Guarrasi, mentre Lolita Lobosco predilige quella pugliese, e una buona forchetta (quanto meno nella trasposizione televisiva, a confermare la contagiosità del topos) si rivela anche Imma Tataranni, che reagisce alle limitazioni di un fisico non proprio avvenente con la mania dei vestiti eccentrici. Alla passione per il buon cibo, invece, Schiavone sostituisce quella per le canne fumate di nascosto e la fissazione per le Clarks ostinatamente calzate anche sulla neve: variazioni sul tema.
Ma il paradigma Montalbano non si limita alla caratterizzazione del protagonista: lo schema prevede una serie di figure di contorno che sono in realtà ipostasi della medesima funzione narrativa. C’è il sottoposto/aiutante solerte e affidabile, che nell’originale è l’ispettore Fazio, mentre al fianco di Imma Tataranni si ripresenta nelle vesti del maresciallo Ippazio Calogiuri, accanto a Schiavone è l’agente Antonio Scipioni, e nelle storie di Vanina Guarrasi è l’agente Carmelo Spanò (ma a ricoprire il ruolo provvede anche l’anziano commissario in pensione Biagio Patanè). C’è il sottoposto imbranato o un po’ tonto (ma occasionalmente provvidenziale) che fa da contrappunto comico: dal Catarella di Montalbano all’agente scelto Ugo Casella di Schiavone, al Mimì Calogero di Vanina Guarrasi. Ci sono anche, qua e là, dei succedanei di Mimì Augello (la figura dello sciupafemmine) e perfino dell’agente Galluzzo (ossia la guida spericolata: un’altra figura imprescindibile nei frequenti spostamenti in auto).
La ricetta è semplice, di (facile) successo. Nella ripetizione, magari, un tantino stucchevole. Ma non si tratta necessariamente di una pedissequa imitazione: non lo è quando sa riempirsi di contenuti originali, credibili, “veri”, come pure (non sempre) accade. E del resto, se tutti gli scrittori russi sono usciti dal cappotto di Gogol (Dostoevskij dixit), non potremo sostenere che tutti i nuovi giallisti italiani escono dalla sigaretta di Camilleri? Purché a lungo andare non resti soltanto il fumo.
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