Assenti ai negoziati per Gaza, ma che pace sarebbe con le donne?
Solo Meloni, quasi in disparte, alla firma di Sharm: nessuna di loro è presente nelle delegazioni che continueranno le trattative a Doha. Eppure la sensibilità femminile servirebbe

Gal Hirsch, Khalil Al Hayya, Steve Witkoff e via elencando: nelle cronache dei negoziati per la pace in Medio Oriente a Doha e a Sharm el-Sheikh salta all’occhio che gli inviati di Israele, Hamas, Stati Uniti e Paesi arabi sono tutti uomini. È un esercizio interessante scorrere i nomi e i volti dei componenti delle delegazioni, perlomeno quelli di cui si sa, raccolti in questi giorni sui media nazionali e internazionali: consiglieri politici, ufficiali, ministri, inviati speciali, capi dell’intelligence, perfino generi di presidenti.
Interessante, dicevamo. Ma ancora di più, un esercizio sconfortante perché parla di un processo che si preannuncia tutto al maschile. Di un mondo “maschiocentrico” abbiamo assaggiato un antipasto lunedì sera, con la assai discussa photo-opportunity che ritrae i leader radunati dal presidente Trump in Egitto per la cerimonia della firma dell’accordo: 32 uomini, paludati nelle grisaglie nere o nelle tuniche immacolate. E poi lei, l’unica donna, la premier italiana Giorgia Meloni, peraltro un po’ isolata al margine esterno, come a rimarcare anche fisicamente una separazione di genere. Assenti le altre leader europee che avrebbero almeno un po’ riequilibrato il gap - Ursula von der Leyen e Kaja Kallas non erano state invitate -, il fermo immagine riflette la scarsità di donne che arrivano ai vertici della politica, ne rimangono escluse per i meccanismi ben noti di conservazione del potere o per vere e proprie discriminazioni (a Sharm erano presenti molti Paesi del mondo arabo).
Ma torniamo alla parte più sotterranea e decisiva del processo che mira alla stabilizzazione del Medio Oriente attraverso i 20 punti del piano proposto da Trump, cioè le trattative che si svolgono a Doha e a Sharm. Come abbiamo detto, tra i delegati dei vari Paesi coinvolti di cui si conosce il profilo non ci sono donne. Viene da chiedersi come sia possibile che nella nomenklatura dei diversi Paesi e soggetti coinvolti non ci fosse nessuna funzionaria o esperta abbastanza qualificata per partecipare alle discussioni. Non si tratta certo di una novità: lo abbiamo visto anche nei diversi (e falliti) round negoziali che si sono svolti in questi anni per una tregua tra Ucraina e Russia. A suffragare queste sconfortarti osservazioni esistono anche dati statistici: l’ultima ricerca sull’argomento rileva che nelle trattative di pace svoltesi nel mondo tra il 1992 e il 2018 le donne hanno rappresentato solo il 13% dei negoziatori e il 4% dei firmatari.
Tuttavia, la constatazione di una mediazione per il Medio Oriente esclusivamente al maschile fa nascere altre domande: saranno in grado tutti quegli uomini in completo scuro, in mimetica o in tunica di rappresentare le aspirazioni e i legittimi interessi delle donne nei rispettivi lati della mappa geografica? Sappiamo che in guerra le donne sono vittime due volte, perché i loro stessi corpi diventano campo di battaglia – lo abbiamo drammaticamente visto accadere anche nel pogrom di Hamas il 7 ottobre 2023 –, e perché solitamente restano accanto ai più fragili, gli anziani, i bambini, i disabili. Il report dell’organizzazione umanitaria Terres de Hommes, pubblicato l’11 ottobre in occasione della Giornata internazionale delle bambine e delle ragazze, ha calcolato che a Gaza quasi il 70% delle vittime civili appartiene proprio al genere femminile. È sempre sconvolgente constatare la sproporzione tra chi la guerra la dichiara e la prolunga e chi invece la subisce. Anche nel caso del Medio Oriente, c’è l’evidenza che i primi sono quasi tutti uomini, e gli ultimi, per una vasta maggioranza, sono donne, ragazze e bambine, che hanno pagato a caro prezzo gli orrori e le sofferenze della guerra senza averne deciso una virgola, ma non hanno voce ora che si negozia per la pace. Del tema delle donne nelle trattative diplomatiche abbiamo parlato a lungo in queste pagine, con il progetto giornalistico “Donne per la pace”. Premi Nobel e mediatrici internazionali ci hanno raccontato la loro esperienza e confermato che le donne, quando siedono ai tavoli, portano anche “altre” questioni oltre al rilascio degli ostaggi, i confini, la demilitarizzazione e il disarmo… Se applichiamo questa evidenza alle trattative in corso per il Medio Oriente, possiamo prevedere che la mancanza di mediatrici donne comporterà una ferita al futuro dei popoli di questa parte del mondo.
Tutti quegli uomini ai tavoli – generali, spie, funzionari, politici – metteranno a tema la ricostruzione del sistema scolastico, l’accesso all’acqua, la sicurezza dei civili, i processi di riconciliazione, le politiche per una parità di genere? Si dirà che questi temi vengono dopo; ma in realtà vengono insieme. Negli ultimi due anni dal Medio Oriente sono arrivate fino a noi tante voci di donne, senza potere ma con una enorme forza morale: le madri degli ostaggi israeliani e quelle dei bambini morti o feriti nella Striscia, le pacifiste dell’una e dell’altra parte che hanno continuato a credere nel dialogo, le dottoresse e le infermiere degli ospedali palestinesi, le sfollate, le giornaliste… Cosa direbbero, se sedessero ai tavoli dei negoziati? Come potrebbero far crescere la pace a partire dai propri cuori? Pura speculazione, la nostra, perché a quei tavoli le donne non ci sono. Abbiamo una certezza, però: toccherà a loro ricostruire la normalità, a Gaza come in Israele. Tenere salde le famiglie, rimandare i bambini a scuola, scommettere sulla fine della violenza in nome di un futuro possibile per i figli. Perché se gli uomini possono vincere o perdere una guerra, alle donne, affinché il loro mondo continui a vivere, tocca vincere la pace.
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