Schiavitù in famiglia? Sì, se non si riconosce l'altro da sé
C’è una “prigionia” anche nell’ambiente più tipico dell’affettività: è quella dei pre-giudizi sulle persone a cui siamo più vicini. Anche cogliendo occasioni "negative" come l'adolescenz

«Liberare dalla schiavitù» sembra a prima vista un’ indicazione poco utile nella vita quotidiana delle nostre famiglie; il modello oggi prevalente è infatti quello di famiglie a impronta fortemente affettiva, che respirano un clima nel quale la parola “libertà” è per tutti una parola-chiave irrinunciabile. Di quale schiavitù possiamo dunque parlare? Almeno a parole siamo tutti convinti di cercare e volere relazioni nelle quali la nostra e l’altrui libertà siano pienamente rispettate, e nessuno è disposto ad ammettere di poter essere per gli altri causa di qualche forma di prigionia né tantomeno di schiavitù. Eppure, senza rendercene conto, tutti noi corriamo quotidianamente il rischio di tenere prigioniere in qualche modo proprio le persone che più pensiamo di amare: i nostri figli, i nostri genitori, i nostri fratelli, l’uomo o la donna che abbiamo sposato. Perché la libertà nostra e delle persone che amiamo richiede prima di tutto la capacità di riconoscere che ciascuno di noi è veramente “altro da sé”, una consapevolezza niente affatto banale e piena di conseguenze pratiche: la consapevolezza non solo formale che l’altro è davvero un altro, e che perciò ha diritto di esistere al di là di noi e del nostro legame, che ha un legittimo confine personale, che la sua alterità è inalienabile e che non possiamo mai conoscerlo del tutto. Pensare che l’altro è in primo luogo e con pieno diritto se stesso sembra una cosa banale, ma è davvero così? In realtà, se ci pensiamo bene, soprattutto nelle relazioni familiari ognuno di noi è convinto di conoscere bene le persone che ha vicino, e di essere pienamente in grado di definirle: il figlio che abbiamo accompagnato nella crescita, il fratello e la sorella che sono cresciuti con noi, i nostri genitori, il marito e la moglie con cui condividiamo la vita da anni ci sembrano persone perfettamente note, di cui potremmo elencare con sicurezza tutti i pregi e i difetti. Fatichiamo a pensare che possano avere lati, caratteristiche, risorse che forse non conosciamo e che mettono in atto in altre relazioni, con persone differenti; pensiamo che quella che vediamo sia la loro immagine più autentica, quella veritiera, e che tutt’al più in altre situazioni possano semplicemente “recitare” copioni diversi.
Questo modo di leggere le persone vicine non è frutto di cattiva volontà, ma piuttosto l’esito naturale del modo di funzionare della mente umana: il ripetersi dell’esperienza e la lettura che ne diamo costruisce dei pre-giudizi sulla realtà che ci sono necessari, perché non sarebbe possibile vivere e muoversi nelle relazioni senza fissare dei confini di prevedibilità. Immaginare (prevedere) come l’altro agisce o reagisce nelle diverse situazioni è una cosa indispensabile soprattutto nella quotidianità, che rappresenta il binario sicuro del nostro vivere; non potremmo permetterci di impiegare troppe risorse per fare fronte alla decodifica dei comportamenti altrui in una costante incertezza: poco alla volta perciò ognuno di noi organizza, in un sistema complesso di rispecchiamenti e proiezioni, la propria lettura delle relazioni importanti e il proprio repertorio di azione, che nasce dal bisogno di ottenere amore e riconoscimento e dalla necessità di difendersi dalla frustrazione e dall’abbandono. Niente di strano, dunque, se tutti abbiamo una naturale inclinazione a leggere l’altro in funzione di noi stessi, e a interpretare in modo unilaterale e limitato il suo modo di essere.
Ma la nostra immagine dell’altro, se non ne prendiamo consapevolezza, può diventare per lui una forma di schiavitù dalla quale diventa quasi impossibile liberarsi; questo avviene quando ci sentiamo troppo certi di sapere l’altro chi è, e perdiamo la curiosità di continuare a scoprirlo e conoscerlo; quando ogni azione, parola o pensiero vengono ricondotti inesorabilmente all’interno dell’immagine che ci siamo fatti di lui, perdendo la possibilità di accogliere la novità. Quando diciamo frasi del tipo : «Io so già chi sei, io ti conosco bene», oppure «tu sei sempre lo stesso, non cambierai mai».
Ci sono però, nel corso della vita di relazione, dei momenti in cui abbiamo l’opportunità di modificare in modo significativo il nostro sguardo sull’altro; contrariamente a quello che potremmo immaginare si tratta spesso di momenti che leggiamo in modo negativo, perché legati al manifestarsi di qualche evento critico. Può capitare con i figli: per esempio quando iniziano a prendere le distanze da noi all’arrivo dell’adolescenza, oppure quando hanno comportamenti “inspiegabili”, che ci mettono in difficoltà e ci fanno soffrire. Può capitare con i fratelli, quando diventando adulti si avverte il crescere di una estraneità dolorosa; può capitare nella coppia, quando ci si accorge di parlare senza comprendersi e ci si affanna a moltiplicare inutilmente le parole, nel vano e frustrante tentativo di convincere l’altro delle nostre ragioni. Queste comunissime, dolorose esperienze segnalano spesso in realtà la necessità di allargare lo sguardo: forse potrebbero suggerirci che l’altro vuole essere ascoltato in un modo nuovo, con un codice differente; forse che sta cercando di sfuggire alla schiavitù del nostro pre-giudizio. Forse che cerca di dirci qualcosa di diverso su di sé, e vorrebbe venire visto con la curiosità che si riserva a ciò che è inedito.
Con grande profondità Romano Guardini afferma: «L’inizio di ogni comprensione consiste nel fatto che l’uno consenta all’altro la libertà di essere quello che è… che non lo guardi come un elemento del proprio ambito vitale, di cui ci si serve, ma come un essere che possiede un centro originario, un suo ordine di vita, desideri e diritti propri». Crescendo, i figli cercano di definire nuove distanze nei confronti dei genitori, distanze che siano più rispettose dei confini necessari al loro essere se stessi; crescendo, i fratelli sentono il bisogno di liberarsi dell’immagine infantile che ciascuno ha dell’altro, e che troppo spesso rimane appiccicata addosso come una condanna. Crescendo, la relazione di coppia chiede a ciascuno di comprendere e accettare attivamente la sfida che consiste nel diventare sempre più e sempre meglio se stessi, pur nel contesto di una relazione intima. La vocazione matrimoniale, se profondamente capìta e vissuta, rappresenta un percorso prezioso e unico di crescita personale, perché la differenza dell’altro e la sua prossimità sono una sfida costante al cambiamento, all’adattamento flessibile, al senso dell’umorismo, alla capacità di un perdono reciproco continuamente rinnovato. Non si tratta dunque di “adattarsi” in modo più o meno rassegnato rinunciando alla propria personalità, ma al contrario di mantenere aperta la reciproca curiosità e di non rinchiudere l’altro nell’idea che ce ne siamo fatti, impedendogli così di continuare a crescere e cambiare. Si tratta di un compito non facile, che sfida la naturale resistenza al cambiamento.
Ascoltare e vedere davvero sono cose difficili, che possiamo imparare solo attraverso un allenamento; passeremo certamente dalla ripetizione forse un po’ scoraggiante di prove ed errori. L’anno giubilare, però, ci invita almeno a provare. Perciò, ogni volta che in famiglia abbiamo litigato, ogni volta che non ci siamo capiti, ogni volta che le parole ci hanno fatto rovinosamente inciampare, sarà l’occasione per chiederci se non ci siamo stretti l’un l’altro nella schiavitù del nostro pre-giudizio. Potremo provare, magari anche solo nel segreto del nostro cuore, a chiederci quali ragioni poteva avere l’altro per sostenere ciò che sostiene, di quale parte di “buona ragione” potrebbe malgrado tutto essere portatore. Anche se non riusciremo a dargli ragione, il nostro cuore inizierà così ad allenarsi a un ascolto più autentico e ad abbandonare la rigidità delle proprie opinioni: e questo sarà un ottimo, primo passo sulla via di un nuovo incontro.
(2 - Continua)
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