Stereotipo, questo conosciuto: i 14enni sanno già che la parità di genere non esiste

Ragazze che sognano in grande ma si sentono ancora penalizzate, ragazzi che credono nella parità ma la vedono come un’eccezione
October 14, 2025
I simboli di maschile e femminile
I simboli di maschile e femminile
«Gli uomini sono visti meglio delle donne, e noi dobbiamo farci di più il mazzo». Elisabeth ha quattordici anni e dice quello che molte adulte pensano ma non dicono più. Sara, poco più grande, la vede diversamente: «Se sei femmina e vuoi fare la calciatrice, puoi farlo. Se sei determinata, puoi farlo». Filippo, anche lui quattordicenne, aggiunge un punto di vista diverso: «Non ci dovrebbero essere differenze, ma per alcune cose è normale che ci sia il maschile, come per gli astronauti. E nella danza, invece, i maschi vengono ancora discriminati». Voci acerbe ma lucide, che raccontano una generazione in bilico tra libertà e retaggi, tra nuovi modelli e vecchi stereotipi che sembrano non voler scomparire. È da queste e molte altre testimonianze che nasce “I sogni ad ostacoli della Generazione Alfa”, edizione 2025 dell’Osservatorio Generi e Stereotipi, promosso da Henkel Italia con la collaborazione dell’istituto di ricerca Eumetra. L’indagine ha dato la parola a ragazzi e ragazze tra i 13 e i 15 anni, per capire che cosa significhi oggi “parità” per chi è cresciuto in un mondo che si proclama ugualitario, ma continua a trasmettere differenze sottili — nei giochi, nelle aspettative, nei modelli familiari. E i risultati parlano chiaro: la parità è ancora una corsa a ostacoli. Il 44% delle ragazze ha molti progetti per il futuro rispetto al 39% dei ragazzi, che prevalgono però nel senso di fiducia: è il 78% di loro che crede di poter fare la differenza contro il 70% delle coetanee. Maggiormente profonde le differenze sulla parità in senso stretto. Il 28% delle ragazze teme di essere discriminata per il genere, timore che riguarda solo il 9% dei ragazzi. Ancora più marcato il divario circa la paura della discriminazione in presenza di figli: l’8% tra i ragazzi e il 31% nelle ragazze che prevalgono anche nella convinzione di dover sacrificare la carriera per la famiglia.
Lo studio rivela quanto buona parte di queste convinzioni maturi all’interno delle famiglie. Nonostante i padri siano presentati come sempre più coinvolti nella vita domestica e nella cura dei figli, i giovani intervistati indicano le diverse pressioni alle quali i genitori sono sottoposti e sottolineano quanta maggiore fatica resti ancora alle madri nella conciliazione tra lavoro e vita personale. Dal 2022 dunque, anno in cui l’Osservatorio ha avviato questo percorso di ricerca, la visione tradizionale del maschile e del femminile ancora condiziona la ripartizione dei compiti in famiglia, le decisioni relative agli studi, al lavoro e al tempo libero. Insomma, anche tra le nuove generazioni la parità di genere rappresenta una strada tutta in salita. Eppure qualcosa si muove e lo si scopre grazie a un dato: il 90% degli uomini pensa che una maggiore equità dei generi potrebbe essere un vantaggio per tutti. Un segnale incoraggiante emerso grazie all’indagine «L.U.I., Lavoro, Uomini, Inclusione», di Fondazione Libellula. La onlus, da oltre dieci anni impegnata nella prevenzione e nel contrasto della violenza di genere attraverso progetti con aziende, scuole e territori, ha presentato di recente i risultati presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, partner scientifico dello studio. «Questa analisi è stata concepita con lo scopo di ascoltare proprio il punto di vista degli uomini e avviare così una nuova conversazione sulla parità», informa Mara Ghidorzi, esperta nelle tematiche di genere per la Fondazione. Oltre 6 mila le persone che sono state coinvolte nel sondaggio, tra le quali 2137 uomini, che hanno espresso le loro opinioni in tema di parità di genere, molestie, disparità salariale e di genitorialità. Si scopre così che è proprio su quest’ultimo fronte che si procede tra spinte in avanti e battute d’arresto. Soffermiamoci sui dati. Solo il 34% degli uomini afferma di aver usufruito di tutto il congedo parentale. Se consideriamo il fattore generazionale vediamo che il dato sale decisamente al 56% tra i lavoratori di età compresa tra i 31 e i 40 anni, mentre scende al 23% nella fascia i 51 e i 60. Numeri che indicano come i compiti di cura siano ancora oggetto di condizionamento culturale, percepiti anche adesso come una responsabilità materna. Uno scenario in cui i Millennial risultano più consapevoli delle responsabilità familiari e delle politiche relative al congedo parentale, a differenza della Generazione X e dei cosiddetti Boomer, ancora legati al modello tradizionale. Con l’affermazione «sento di dover sacrificare la mia carriera per prendermi cura della mia famiglia» si trova d’accordo solo il 18% degli uomini. Una percentuale che scende all’11,4% quando si parla di manager e si abbassa ulteriormente al 6% se questi dirigenti sono padri. Nella consapevolezza di dover compromettere la carriera per la famiglia è invece il 43% delle donne, dato che conferma la forte disparità.
Il segnale più eclatante del gender gap è la differenza di retribuzione tra uomini e donne
Uomini, donne e paghe differenti
A far riflettere poi sul perdurare di certe credenze generalizzate su ruoli e qualità attribuibili al sesso arrivano altre indicazioni. Il 13,8% degli uomini, per esempio, sente di non poter parlare liberamente delle responsabilità famigliari e di cura quando questi impegni possono ricadere sul lavoro. Due donne su dieci affermano di aver ricevuto domande relative alla possibilità di avere figli. Infine, un uomo su dieci ammette di aver sentito allusioni e commenti rispetto alle conseguenze negative della maternità, mentre solo il 5% riferisce di aver colto le stesse battute con riferimento alla paternità. «Resistenze che sembrano riportare al vecchio concetto di mammo per l’uomo che decide di dedicarsi ai compiti di accudimento dopo la nascita di un figlio», osserva Ghidorzi, «retaggio culturale che si traduce nelle tradizionali aspettative e responsabilità sociali di uomini e donne, e cioè: investimento nel lavoro e carriera per gli uomini e gestione del carico di cura per le donne. E proprio da qui deve partire la sfida culturale: riuscire a trasformare il concetto di genere da uno schema sociale a un’idea di relazione». Si trova d’accordo Claudia Manzi, docente di Psicologia Sociale all’Università Cattolica di Milano, responsabile di studi e progetti sul tema dei processi identitari legati al genere. «Il vero problema oggi non riguarda tanto la presenza di stereotipi. Va detto infatti che stiamo attraversando una fase di transizione e assistiamo a un progressivo indebolimento di pregiudizi e condizionamenti, come dimostra l’ultima rilevazione Istat che ne registra una diminuzione tra il 2018 e il 2023. Merito del lavoro culturale finora svolto, che però resta ancora disallineato rispetto alla realtà sociale. Inoltre ricercare la parità vuol dire anche e soprattutto valorizzare le diversità, superare l’idea della battaglia tra i sessi per sostenere piuttosto il valore dell’integrazione tra il maschile e il femminile. Un cambiamento per cui è necessario un grande lavoro educativo nel quale la famiglia può giocare un ruolo decisivo», sottolinea l’esperta. «Se fin dall’infanzia i nostri figli assisteranno alla collaborazione tra mamma e papà, allo scambio dei compiti educativi, domestici e lavorativi, in uno spirito di squadra, cresceranno senza schemi rigidi, liberi da quelle prescrizioni sociali che ancora oggi sfociano in discriminazioni e spesso giustificano implicitamente anche la violenza».

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