domenica 8 ottobre 2023
Don Maurizio Chiodi: Amoris laetitia con un nuovo rapporto di reciprocità tra teoria e prassi ha modificato una prassi millenaria della Chiesa, aprendo a percorsi di discernimento per i divorziati
Don Maurizio Chiodi

Don Maurizio Chiodi - archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

Dopo gli sviluppi sul fronte della pastorale esaminati nelle scorse puntate, vediamo con don Maurizio Chiodi come la teologia sui temi familiari ha recepito le sollecitazioni derivanti dal lungo periodo sinodale sulla famiglia. Proprio a dieci anni dall’avvio di quel percorso - era l’8 ottobre 2013 - abbiamo deciso di ospitare sulle nostre pagine una serie di analisi sui cambiamenti avviati nella pastorale e nella teologia della famiglia per capire il nuovo rapporto tra Chiesa e famiglia alla luce del percorso deciso da papa Francesco, con due Sinodi a distanza di un anno l’uno dall’altro, con due consultazioni mondiali del popolo di Dio, con la pubblicazione del Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus e, nell’aprile del 2016, con la pubblicazione di Amoris laetitia. Il nostro percorso di riflessioni è stato inaugurato dall’arcivescovo di Chieti Vasto, Bruno Forte (domenica 17 settembre), poi è toccato al preside del Pontificio Istituto teologico “Giovanni Paolo II “, monsignor Philippe Bordeyne (domenica 24 settembre) e poi al direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia, padre Marco Vianelli (domenica 1 ottobre). Nelle prossime settimane seguiranno altri esperti. La lunga stagione sinodale non ha determinato solo una svolta culturale, ha fatto nascere nuovi uffici pastorali e innescato novità rilevanti su cui è giusto continuare a riflettere.

Maurizio Chiodi

Che cosa è cambiato nella teologia morale fondamentale, nei dieci anni trascorsi dall’annuncio del processo sinodale sulla famiglia, che ha trova in Amoris laetitia il suo snodo principale? Non è possibile, in poche parole, dare una risposta esaustiva a questa domanda, ma possiamo provarci. Moltissime sono state le pubblicazioni che hanno inteso mettere in luce le novità suscitate da AL nel campo della teologia morale. Questa Esortazione apostolica, per esempio, ha favorito e auspicato un rapporto di reciprocità tra teoria e prassi, in particolare tra teologia morale e teologia pastorale. Un volume di prossima pubblicazione, per la San Paolo, Pratiche pastorali, esperienza di vita e teologia morale, raccogliendo contributi di teologhe e teologi di tutto il mondo, prende spunto proprio da questa prospettiva, centrale nell’Esortazione di Francesco.

Un altro tema stimolante, per fare un ulteriore esempio, è nel cap. IV, ove si parla di eros – l’amore coniugale – a partire dal bellissimo inno paolino sull’agape, in 1 Cor 13. Il tema che però ha attirato maggiormente l’attenzione dei teologi è stato il cap. VIII, intitolato Accompagnare, discernere e integrare. In questo testo, giustamente famoso, Francesco ha modificato, con cautela ma in modo irreversibile, una prassi millenaria nella Chiesa cattolica, aprendo la possibilità di un percorso di discernimento che dia ai “divorziati risposati” di accedere al perdono sacramentale e alla comunione eucaristica.

Sebbene questo esito sia stato contestato da una frangia minoritaria ma molto combattiva di teologi e di vescovi, come appare nei Cinque dubia dei quattro cardinali (2016), è oggi di fatto impossibile rifiutarne la possibilità, essendo esso stato esplicitamente accolto da Francesco, con l’approvazione della lettera pastorale dei vescovi della regione pastorale di Buenos Aires, Criterios basicos para la aplicación del Capítulo VIII de la Amoris laetitia.

Tra i molti interventi dei vari episcopati nel mondo, vorrei qui ricordare la bella lettera pastorale della Conferenza Episcopale Regionale del Piemonte e Valle d’Aosta, intitolata « Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito » (Sal 34,19). Accompagnare, discernere, integrare.

Il fulcro dell’argomentazione teologico-morale di AL è senza dubbio una lunga citazione della Summa Theologiae, dove s. Tommaso afferma che nel campo del giudizio morale – la ragione pratica – quanto più si scende nel determinare casi concreti tanto più aumentano le “eccezioni” o le differenze rispetto alla norma “letterale”, situazioni nelle quali essa non è valida. Il testo di A. Thomasset e J.-M. Garrigues, Discernimento ... Verso una fede matura. Amoris laetitia insegna un nuovo stile pastorale, edito dalla Libreria Vaticana (2017), ha sostenuto in modo interessante che la sottolineatura della singolarità della decisione in AL non si oppone all’universalità della norma in Veritatis splendor, ma la integra. Il nucleo del “giudizio morale”, nell’approccio tomista, si trova nella virtù della saggezza ( prudentia), che nella Summa rappresenta la chiave di volta architettonica di tutto l’agire. La saggezza, in san Tommaso, ha un duplice risvolto. Per un verso, infatti, essa riprende decisamente il pensiero di Aristotele che, nell’Etica Nicomachea, attribuiva appunto alla virtù della saggezza ( phrónçsis) il ruolo cruciale nella scelta virtuosa. Per altro verso, però, la saggezza dei medievali, che trova la sua sintesi mirabile nella teologia di Tommaso, era strettamente legata alla tradizione spirituale del “discernimento” degli spiriti ( discretio spirituum) che, a partire dai padri della Chiesa, venne poi ripresa nell’epoca moderna da alcuni grandi maestri della vita cristiana, come s. Francesco di Sales e s. Ignazio di Loyola e molti altri. Saggezza e discernimento, in fondo, sono due nomi diversi, legati il primo alla riflessione morale e il secondo alla tradizione spirituale, per dire la stessa cosa.

Ora, la centralità del discernimento – o saggezza – non abolisce affatto la norma, ma chiede alla coscienza di non limitarsi ad una sua fredda “applicazione”, come dice AL ai numeri 2 e 305. La saggezza, piuttosto, permette di superare la “dittatura” della norma, con il legalismo di chi riduce la vita morale a semplice applicazione di un comandamento immutabile riferito alla situazione particolare, mediante un ragionamento deduttivo e logicamente stringente. Al contempo, però, la saggezza è tutt’altro dalla creatività assoluta di una coscienza intesa come l’istanza che ridurrebbe il soggetto morale ad arbitro indiscusso del bene e del male. In tale orizzonte, è compito urgente della teologia morale di mostrare come norma e discernimento abbiano un fondamentale riferimento alla coscienza. Francesco stesso, proprio parlando del discernimento dei fedeli, in AL 37, scrive: “siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle”.

La centralità della coscienza nell’esperienza morale è la vera sfida dell’etica teologica. Si tratta, in tal senso, di pensare un “modello teorico” che non parta della norma, senza però perderne la necessità, ma che proceda dalla coscienza, non certo intesa semplicemente come “autocoscienza” o consapevolezza né tantomeno come autonomia assoluta. La centralità della “coscienza” nell’esperienza morale non cade affatto nel “relativismo”, nella misura in cui la coscienza venga interpretata come il soggetto morale che, “toccato” dall’appello del bene attraverso la mediazione della sua esperienza personale e culturale, è chiamato a decidersi per il bene che gli è anticipato. Questa affermazione vale, ovviamente, per tutte le persone, credenti e non credenti.

La coscienza coincide, dunque, con la persona umana, di cui dice il carattere originariamente morale, nello stesso tempo libero (auto-nomo) e interpellato da altro da sé (etero- nomo). È nelle esperienze buone che la coscienza è chiamata a decidere di sé, rispondendo all’appello che la sollecita e la precede. Occorre notare che le esperienze buone della vita sono sempre legate alla relazione con l’altro e insieme hanno una forma culturale ben determinata. Tutto ciò appare in modo esemplare nell’esperienza filiale. Nessuno “si fa da sé”: siamo tutti figli. Nessun essere umano può crescere senza fare l’esperienza della cura che altri, coloro che l’hanno generato, gratuitamente gli offrono, mantenendo la promessa fatta fin dall’inizio: “ci prenderemo cura di te”. Nella cura filiale, anzitutto ricevuta, ciascuno di noi ha fatto l’esperienza del bene. Tale vissuto ha però sempre una forma storica e culturale, che cambia nel tempo e nelle forme concrete, con il loro carattere drammatico, nel senso letterale del termine greco, che significa azione.

L’esperienza umana ha una forma drammatica, perché si dà nelle vicende della storia, nell’intreccio delle relazioni, che mescolano inseparabilmente bene e male, promessa e tradimento. Le esperienze del bene hanno dunque una caratteristica che, nello stesso tempo, è universale (il bene) e particolare, essendo esse personali e culturali. È proprio il discernimento – la saggezza – la virtù fondamentale che ci abilita a distinguere il bene. Si tratta di un processo che impegna la coscienza a riconoscere che, nelle esperienze buone della vita, le è data una promessa che la interpella a decidersi per il bene possibile, che è per essa l’unico bene realmente tale.

Il bene non è un “ideale” irraggiungibile, a cui dovremmo tendere senza mai poterlo conquistare, ma ci è anticipato, nei vissuti buoni della vita, e proprio per questo ci chiama a deciderci per esso, nella forma del concreto bene possibile. In tale prospettiva la coscienza è chiamata a interpretare la norma morale, riconoscendo che essa dà parola al bene che la precede e che rimane eccedente rispetto ad essa. Tra il bene e la norma esiste una correlazione insuperabile: per un verso il bene è più grande della norma – in fondo esso è il compimento di sé – ma per altro verso non esiste un bene astratto che non prenda carne nel comandamento. Nella fede cristiana, Dio stesso è il bene che in Gesù si è dato a noi come compimento del desiderio che ci anima, in tutte le azioni e relazioni. La benevolenza di Dio si rivela e si dona nella storia di Gesù, che dà la sua vita per chi lo uccide, perdonando e dischiudendo per tutti un cammino di conversione e speranza. Credere significa seguire il Signore, trovando in lui la “norma” dell’amore: “come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Il comandamento dell’amore, nel quale trova compimento la Legge e i Profeti, suppone la grazia. La legge è preceduta dal dono. In questa luce possiamo dire che AL suggerisce, nel suo complesso, una chiave interpretativa dell’esperienza morale, che è compito della teologia approfondire ed elaborare. In essa possiamo riconoscere nella coscienza morale il nucleo e il fuoco pulsante dell’esperienza umana. Essa attesta che il bene ci interpella, chiamandoci a riconoscere il dono che ci precede.

docente di bioetica e di teologia morale

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: