Comunità, non istituti: nelle case famiglia bimbi e genitori guariscono insieme
di Luciano Moia
Al convegno nazionale del Cncm, a Venezia, educatori, studiosi e operatori hanno chiesto di voltare pagina rispetto alla narrazione distorta seguita al caso Bibbiano: «Rivendichiamo il nostro ruolo educativo e di sostegno alle famiglie in difficoltà»

Comunità di tipo familiare, case-famiglia, strutture d’accoglienza per minori, comunità alloggio. Sono denominazioni, alcune corrette altre meno, che in questi anni, soprattutto dopo il caso Bibbiano, hanno assunto a livello mediatico un suono quasi sinistro. Come se l’obiettivo di queste realtà fosse soltanto quello di “portare via i bambini dalle famiglie”. Naturalmente non è così, ma complice una certa narrazione tutta a tinte fosche sostenuta anche da certa politica – con inchieste parlamentari brandite come clave che poi non hanno portato a nulla – e anche qualche criticità del sistema, è stato facile far passare le comunità come il buco nero del nostro apparato di protezione dei minori fuori famiglia. Il convegno del Coordinamento nazionale comunità di tipo familiare (Cncm) che nei giorni scorsi a Venezia ha festeggiato i primi 35 anni di vita aveva quindi tra i suoi obiettivi – oltre a fare il punto sullo stato dell’arte delle comunità di accoglienza per minori, ad analizzare i bisogni di supporto, formazione e supervisione degli educatori nella gestione delle complesse dinamiche relazionali ed emotive proprie del loro incarico, ad approfondire il tema della collaborazione e del dialogo tra educatori delle comunità e gli altri adulti di riferimento per i minorenni accolti – quello di girare pagine rispetto agli anni della gogna mediatica. Impegno doveroso per le stesse comunità ma, soprattutto, per i circa 20mila minori che vi sono accolti e per le loro famiglie.
«Da diversi anni – spiega Gianni Fulvi, presidente del Cncm - si assiste da un lato a continue critiche al sistema di accoglienza dei minorenni nelle comunità da parte di rappresentanti delle istituzioni, dell’opinione pubblica e del panorama mediatico, dall’altro si registra un costante aumento del numero di minorenni accolti in comunità. Tra questi, sono sempre di più quelli che presentano complessità dal punto di vista psicologico mentre sembra aumentare la difficoltà del sistema sanitario a farsi carico di tali problematiche». Fanno capo al Coordinamento nazionale delle comunità di tipo familiare oltre 300 realtà. Una fetta importante delle oltre tremila comunità esistenti in Italia inserite in altre reti. Tra le più importanti, Uneba, Lega Coop, Cnca, Comunità Papa Giovanni XXIII. Ma, al di là delle sigle, la linea emersa a Venezia dal confronto con tanti esperti – presenti anche delegazioni di altri Paesi, tra cui rappresentanze della Federazione internazionale delle comunità educative – segna un punto fermo rispetto all’esigenza di mettere al centro non solo il “superiore interesse del minore”, ma anche quello di tutelare e accompagnare bambini e ragazzi insieme alle loro famiglie. Se i genitori, come spesso capita, mostrano difficoltà e inadeguatezze, non vanno messi da parte ma inseriti in un progetto che preveda la possibilità di incrementare le loro competenze educative e relazionali. «In questi giorni l’abbiamo ripetuto in tanti modi – continua Fulvi – mai tagliare i rapporti tra i minori e le famiglie d’origine, tranne in situazioni limite, casi di abusi e maltrattamenti pesanti valutati dall’autorità giudiziaria».
Un’attenzione che, come emerso durante il convegno, si estende ormai anche ai minori stranieri non accompagnati, sia con le prime esperienze pilota di centri d’accoglienza che ospitano padri e minori insieme – succede a Catania e in Friuli – sia con una comprensione nuova rispetto alla sofferenza delle madri rimaste nei Paesi d’origine quando i loro figli partono per l’Europa. Due giornalisti che da anni studiano il fenomeno, Luca Attanasio e Ibrahim Lou, hanno raccontato nell’ambito del progetto Mum’s come le mamme del Gambia e del Mali vivano uno strappo affettivo che segna tutta la storia familiare. Un risvolto umano che troppo spesso viene messo da parte. L’idea che ha attraversato tutto il dibattito va invece nel segno opposto, sostenere e curare l’intera famiglia per prevenire e – quando è possibile – porre riparo a tutte le separazioni. In questa prospettiva si pone, tra gli altri, l’intervento della filosofa Maura Gancitano, che ha spiegato come le relazioni genitoriali non siano mai semplici legami biologici, ma spazi simbolici, affettivi e sociali in cui si forma l’identità dei bambini e dei ragazzi. «La filosofia – ha sottolineato - può offrire strumenti per comprendere come queste relazioni vadano intese come pratiche di cura reciproca, capaci di sostenere la crescita nella vulnerabilità». Ma esistono progetti già rodati per prevenire gli allontanamenti e favorire la riunificazione familiare? Certo, Paola Milani, docente di pedagogia sociale e pedagogia delle famiglie all’Università di Padova, ha raccontato il “progetto Pippi” (Programma di Intervento per prevenire l’Istituzionalizzazione) di cui è responsabile nazionale che è il più ampio programma finanziato nella storia delle politiche sociali in Italia per la prevenzione della vulnerabilità familiare. Le parole chiave di Pippi sono sufficienti a definirne gli obiettivi: genitorialità; riunificazione familiare; bisogni di sviluppo; partecipazione. «La prospettiva nella quale queste nozioni vengono situate – ha sottolineato Milani - è quella di un welfare integrato nel quale siano ugualmente presenti interventi di promozione, prevenzione e protezione che vedano la piena partecipazione di bambini e figure genitoriali e il riconoscimento di un ampio range di azioni di parenting support come intervento di elezione».
Quando il proposito di far viaggiare insieme interventi sui minori e interventi sui genitori si realizza concretamente, allora - come ha fatto notare Stefania Bon, presidente degli assistenti sociali del Veneto - il modello delle comunità di tipo familiare si conferma come un presidio essenziale nel sistema di tutela. Non soltanto una risorsa di prossimità, ma un luogo di relazioni autentiche, capace di offrire ai minori accolti un ambiente in cui ritrovare fiducia, stabilità affettiva e opportunità di crescita». Concetto messo in luce anche da Giorgio Tamburlini, pediatra, presidente del Centro per la Salute dei bambini e delle bambine, secondo cui le carenze delle famiglie d’origine vanno curate con lo stessa competenze e la stessa solerzia di quelle dei minori, in caso contrario ogni proposito di integrazione è destinato a fallire. Il riferimento è anche al problema dei “rientri” dei minori nella famiglia d’origine dopo un periodo più o meno lungo trascorso nelle comunità. Non tutti i “rientri”, purtroppo, si concludono in modo positivo e, per i minori, si devono riaprire le porte delle strutture d’accoglienza. «Ogni rientro fallimentare – ha ripreso Gianni Fulvi – è un evento devastante e ogni comunità deve porre la massima cura per evitare queste ipotesi». Un rischio che si può prevenire, è stato spiegato, anche con una formazione più accurata e più specifica degli educatori. Ma oggi, nel nostro Paese, nelle facoltà di pedagogia e di scienze educative, la figura dell’educatore per comunità d’accoglienza di tipo familiare è quasi sconosciuta. Non esiste alcun percorso universitario specifico per fornire alle comunità professionisti dell’accoglienza che, nelle maggior parte delle situazioni, devono rivestire i panni impegnativi dei “genitori pro tempore”.
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