martedì 4 aprile 2023
Le imprese inseguono presunti bollini di qualità, dimenticando a volte di applicare davvero ciò che si dice e di fare attenzione alle proprie rappresentazioni
Se la Parità soffre la cravatta

instinia.com

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È un po’ di tempo che piccole, medie e grandi aziende stanno finalmente affacciandosi su tematiche e valori sempre più importanti per le nuove generazioni di consumo. Le pubblicità sono diventate vetrine elettive di atteggiamenti nobili verso la sostenibilità ambientale, le politiche inclusive, le attenzioni alle diversità, la parità di genere, il sostegno economico verso le comunità più fragili e via discorrendo. Ma l’etica è materia alquanto scivolosa quando si ha a che fare con le questioni del profitto economico: il rischio è quello di sfidare una categoria morale su problematiche che spesso e volentieri sono state provocate proprio dalle dinamiche estrattive di una globalizzazione turbo-capitalista che ha fatto scempio di risorse ambientali e diritti civili. Inoltre, le sale riunioni non sono tra i luoghi più introspettivi del mondo e l’autocritica non è pratica comune dentro le organizzazioni. Così può capitare che nell’esaltazione salvifica di questa nuova economia qualcuno rischi di perdere il piano di realtà, può accadere anche nelle migliori famiglie. E in questo caso è accaduto alla famiglia di un noto pastificio, di antica tradizione, che ha pensato bene di presidiare le pagine a colori dei quotidiani nazionali con un annuncio sulla parità di genere, che per la famiglia di cui sopra è addirittura un valore certificato. Sì, perché l’oggetto della pubblicità in questione fa riferimento all’ottenimento di una Certificazione di Parità di Genere UNI/Pdr 125:2022 (e qui ci vorrebbe un asterisco come dentro le pubblicità dei prodotti finanziari) che confermerebbe – condizionale d’obbligo – «l’orientamento strategico all’eliminazione di ogni tipo di discriminazione, all’investimento sulla presenza femminile e alla riduzione del divario di genere valorizzando le capacità di ogni collaboratore». Collaboratore, con il maschile sovraesteso, senza neanche sforzarsi di chiudere con una perifrasi o con una formula neutra.

Ma questa precisazione è cosa di poco conto di fronte alla sontuosità marchiana di una fotografia che occupa quasi metà della pagina, ritrae la famiglia fuori dallo stabilimento con la squadra al gran completo come da manuale, ma con una scarsità di presenze femminili che non è passata inosservata. In prima fila se ne contano 4 su 20, dalla seconda fila la parata di giacche e cravatte rende il tutto ancora più infelice e per cominciare a intravedere qualche donna in più bisogna retrocedere fino al fondo dello schieramento, dove allungano il collo le seconde linee delle maestranze artigianali con i camici bianchi che colorano la compagine scura di manager e dirigenti. Un qualsiasi Paese civile non avrebbe bisogno di una certificazione per la parità di genere, ma questo è un altro discorso, ma se proprio si vuole impaginare il proprio impegno, più che ai bollini si faccia attenzione alle proprie rappresentazioni, ché la credibilità è forse il valore più importante per chi si affaccia su questi temi.

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