mercoledì 1 febbraio 2023
Anche la sanità ha ormai legami globali. E l’efficacia del sistema di protezione è definito dalle garanzie offerte ai più deboli
Quel che resta del Covid: la salute dei fragili è di tutti
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La pandemia di Covid-19 ha sconvolto il mondo che conoscevamo come uno tsunami globale con effetti sociali, economici e politici di cui ancora fatichiamo a cogliere i confini. Ciò che è successo e, per molti versi, ciò che ancora succede potrebbe nel lungo periodo portare ad un peggioramento del lo stato di cose attuale, accentuandone i limiti, le ingiustizie, le disuguaglianze, ma potrebbe anche, forse, porre le basi per un miglioramento, per una società più inclusiva, prospera e sostenibile.

È indubbio però che qualunque forma assumerà il new normal, la “nuova normalità”, essa sarà fortemente determinata dal modo in cui riusciremo a gestire i beni comuni ed in particolare i beni comuni globali. Questi “global commons” che travalicano le frontiere locali per assumere una dimensione sovranazionale, globale, appunto, sono la chiave per affrontare non solo le sfide del futuro ma anche già quelle del presente. Penso a tre questioni enormi che possiamo pensare attraverso il framework culturale dei beni comuni globali: la questione ambientale, la questione intergenerazionale e la questione sanitaria. La prima è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo raccontato nella puntata precedente de “La Cura delle Radici” di una storia di successo nella gestione della questione ambientale, quella relativa all’abolizione a livello internazionale dell’uso di sostanze climalteranti che negli anni ha determinato la riduzione del buco dell’ozono. Ma non sono molte, purtroppo, le storie di questo tipo. Molte altre ci dicono di una grande incapacità a coordinare i nostri sforzi nella direzione di una maggiore tutela dell’ambiente.

La seconda questione è correlata alla prima. Che mondo stiamo lasciando alle giovani generazioni e a quelle che verranno. Per quanto riguarda le condizioni fisiche del pianeta ma non solo. È in atto, da anni ormai, una rivoluzione sociologica, che vede, per la prima volta nella storia, le nuove generazioni affrontare prospettive peggiori rispetto a quelle di cui hanno goduto i loro genitori e perfino i loro nonni. E questo vale per la sicurezza del lavoro, per la sostenibilità delle finanze pubbliche, le pensioni, la possibilità di acquistare o affittare una casa e, di conseguenza, per l’impatto che tutto ciò ha sulla formazione e sulla stabilità di nuove famiglie. La terza questione è relativa alla salute. Su questo terzo aspetto vorrei soffermarmi, ora, un po’ più diffusamente. Una delle verità che l’esperienza pandemica ha reso palesi è il fatto che la salute, quella di ciascuno di noi, non possa essere pensata come un bene privato, come una questione individuale, ma abbia, al contrario, tutte le caratteristiche di un bene comune, di un bene comune globale. I global commons sono quei beni il cui effetto si dispiega oltre i limiti dei confini nazionali. Proviamo a pensare all’acqua del fiume Nilo. Dalla sua disponibilità e qualità dipende la vita di milioni di persone in tutti gli otto Stati, dal Ruanda fino all’Egitto, che vengono attraversati dal fiume. Ognuno di questi Paesi ha un incentivo a sfruttare l’acqua del fiume a discapito anche degli altri Paesi, nella logica della “tragedy of the commons” di cui tante volte abbiamo parlato, senza che nessuno di questi comportamenti appropriativi possano essere limitati e regolamentati dall’intervento di una singola legislazione nazionale. Dal Nilo all’atmosfera, alle grandi foreste, agli oceani, nessuno di questi global commons potrà, quindi, essere tutelato adeguatamente usando gli strumenti del mercato o quelli delle autorità nazionali.

Analogamente, in particolare con la pandemia, siamo passati da una situazione nella quale lo stato di salute del singolo veniva vissuta come una faccenda puramente privata, o al massimo familiare, alla consapevolezza che, invece, la salute di ognuno di noi ha una valenza sociale. Se mio figlio è immunodepresso e va a scuola con un compagno non vaccinato, vuol dire che i genitori si stanno comportando come dei “free-rider” opportunisti che stanno cercando di ottenere i massimi benefici individuali facendo ricadere i costi su tutti gli altri, senza rendersi conto, però, che tra “gli altri” ci sono anche loro.

Oggi l’epidemia ci fa compiere un ulteriore passo, mostrandoci come la salute abbia, in realtà, tutte le caratteristiche di un bene comune e di un bene comune globale. Una questione tutt’altro che privata, dunque. Non basta cioè tutelare la salute dei cittadini all’interno dei confini nazionali, perché, con il livello di permeabilità delle nostre frontiere, o siamo tutti al sicuro o nessuno è al sicuro. Lo ripete spesso Papa Francesco: « Nessuno si salva da solo». Va benissimo allora che in Italia l’87% degli over 12 abbia ricevuto almeno due dosi di vaccino, ma cosa sappiamo dei Paesi più poveri e, quindi a rischio? Il virus non è affatto democratico. I costi della pandemia non sono distribuiti in maniera equa e qui sta il punto vero della questione. Quei Paesi che avranno subito un impatto più ridotto, che avranno potuto garantire ai propri cittadini livelli di protezione maggiore, sono ripartiti prima, continueranno, comunque, ad essere esposti al rischio di un contagio di ritorno e all’apparire di nuove mutazioni più aggressive e a nuovi focolai, in misura proporzionale alla protezione ottenuta non tanto dai loro cittadini, ma dai cittadini dei Paesi meno protetti.

Come la resistenza complessiva di un ponte è determinata dalla forza del suo pilastro più debole, così anche l’efficacia del sistema di protezione sanitario mondiale è definito dalla qualità della protezione garantita ai più deboli. Questa pandemia ci insegna anche che mentre una distribuzione dei beni, anche fortemente diseguale è perfettamente compatibile con il nostro attuale sistema geopolitico ed economico, perché incentrata sulle unità politiche nazionali, la distribuzione dei mali, può essere colta solo con uno sguardo cosmopolita. E allora, con questo sguardo, il panorama che si contempla è davvero sconsolante. L’epidemia ci può aiutare a ragionare oltre la prospettiva nazionale, perché è vero che ogni Paese sta vivendo storie parzialmente differenti, ma tutte si svolgono dentro la stessa vicenda globale, che ci accomuna e che ci fa cogliere, in maniera inedita la dimensione della nostra interdipendenza.

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