mercoledì 18 gennaio 2023
Enrico, Alessandra e Tommaso hanno un sogno: restaurare un battello tipico della Laguna di Venezia per farne un «teatro con le vele al posto del sipario». E che ci crediate o no lo stanno realizzando
Il burcio, battello tipico  della laguna di Venezia

Il burcio, battello tipico della laguna di Venezia

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«Perché non vieni a vedere la mia collezione di oltre 200 libri sulla nautica?». Ha ripreso da qui l’amicizia, poi trasformatasi in amore, tra Enrico Sandon e Alessandra Varotto, entrambi trentasettenni. Entrambi della provincia di Padova, medie nello stesso Istituto, poi percorsi diversi: lui, falegname e oggi maestro d’ascia e armatore; lei, manager della comunicazione. Si incontrano dopo tanti anni in un pub. E quel riferimento alla passione per la navigazione basta ad Enrico per capire che anche Alessandra sarebbe «salita a bordo» di quello «scriteriato» progetto che stava ideando con l’amico Tommaso De Michiel. «Però prima di darle fiducia, le ho fatto un esamino per capire se i libri li teneva solo per piacere estetico, o se li leggeva. Promossa». Da qui la condivisione di un sogno. Quello di fare cultura navigando. Giovani e visionari. Oppure pazzi, come Alessandra disse ad Enrico e all’amico Tommaso, quando la prima volta le parlarono di un burcio (battello dal fondo piatto particolarmente adatto a navigare nei fondali bassi della laguna di Venezia, ndr) da restaurare. All’epoca, però, era ancora poco più di un’idea. Perciò, prima di tutto, serviva un’imbarcazione, e non certo una qualsiasi. Una che ti prenda il cuore e la testa. Tanto da corteggiarne il proprietario per un anno e mezzo. « Non voleva venderla. Ha ceduto per sfinimento – sorride Enrico –. Alla fine ce l’ha regalata, avendo capito che facevamo sul serio». «Quando l’ho vista, me ne sono innamorata anch’io», dice Alessandra. Incontriamo Enrico ed Alessandra al Museo della Navigazione Fluviale di Battaglia Terme (Padova), situato lungo l’omonimo canale, frutto della mente illuminata di Riccardo Cappellozza, barcaro, figlio d’arte.

Tra scheletri di scafi e oggetti per la navigazione, non poteva esserci luogo migliore per parlare di una storia atavica, millenaria, che rischia l’oblio. A meno che giovani illuminati, come Enrico, Tommaso, Alessandra, e altri che si sono aggiunti, non decidano di – è proprio il caso di dirlo – «riportarla a galla», come hanno fatto con il loro burcio, salvato dall’annegamento. Voluto, cercato, anelato, e finalmente trovato nello squero (cantiere, ndr) di Olindo Ranzato a Chioggia (Venezia). Era il 2016. La Freccia Azzurra, come l’araba fenice, si preparava a risorgere, e con lei tutto il suo carico di storia. Una storia che racconta di come, fino a metà anni Sessanta, il trasporto nel nord Italia avvenisse via acqua, grazie ad un sistema capillare di fiumi e canali. Autostrade d’acqua poi sostituite – senza troppa lungimiranza – da quelle di cemento. Una storia che parla di imbarcazioni antichissime, i burci appunto, citati anche da Dante nella Divina Commedia. E Freccia Azzurra è un burcio-gabarra totalmente costruito in legno, classe 1957, di dimensioni importanti: è lungo 20,90 metri, largo 4,92 metri, pesa 28 tonnellate e viaggia alla velocità di una ventina di nodi, un paio d’ore per percorrere una cinquantina di chilomevigava tri, correnti permettendo. «Se consideriamo che queste barche possono muoversi utilizzando soltanto forze propulsive naturali come le correnti e i venti, possiamo parlare di un risparmio notevole in termini di CO2 – spiega Enrico –. Un risparmio che c’è anche nel caso dell’inserimento del motore, perché con uno soltanto possono trasportare un carico equivalente a quello di cinque, sei autoarticolati. La nostra è una delle primissime costruite già con lo scafo predisposto all’inserimento del motore. La chiamavano il “battello di Chioggia” perché na- alla velocità di un battello. Ha assolto ai suoi doveri fino a dieci anni fa: inizialmente come batelo sabionante per l’escavazione e il trasporto di sabbia, e successivamente, fino al 2016, come batipai (battipali), realizzando varie infrastrutture e opere edili in laguna».

Enrico ha imparato a «fare barche» e a restaurarle, da fìo (apprendista, ndr), in uno squero di gondole a Venezia. Oggi è uno degli ultimi maestri d’ascia che utilizza la tecnica tradizionale. «La difficoltà maggiore – dice – è farsi accettare in un mondo chiuso, arcaico. Poi bisogna imparare a rubare il mestiere con gli occhi. Perché non esistono manuali e, chissà, magari il primo lo scriverò io. Infine, serve intuizione. Se non capisci perché pianti prima un chiodo in alto e non in basso, non capisci com’era costruita la barca e ti areni. L’approccio, quindi, non è accademico, è quasi filosofico. Ciò che mi ha colpito è che maestri d’ascia, analfabeti, avessero una conoscenza delle tecniche di costruzione e di navigazione, direi superiore ad un ingegnere navale di oggi». « La nostra barca non è l’unica – aggiunge Alessandra –, perché fino agli anni ‘70 ce n’erano tantissime, ma è unica perché ha una storia particolare, per esempio il fatto che sia stata progettata per avere un motore e questo l’ha resa più veloce delle altre sue simili, e poi la vita che ha vissuto, ha praticamente visto costruire la laguna di Venezia. Ma anche perché si porta appresso tutta una serie di ultimi passaggi che stiamo cercando di riscoprire: gli ultimi maestri d’ascia che hanno visto costruire i burci, e sono davvero pochi e molto anziani, gli ultimi che hanno memoria di questa storia bellissima, ma molto dura, perché queste imbarcazioni erano sinonimo di lavori umili, di povertà. Chi è riuscito a migliorare la propria posizione sociale, se n’è disfatto in fretta e non ne vuole più neanche sentir parlare. Il nostro obiettivo è sì fare un’operazione di memoria, ma una memoria non cristallizzata. Bisogna dare una nuova vita a questa barca, con momenti musicali, di poesia, immersioni alla scoperta dei fondali. Un mezzo antico che parla al futuro. Un laboratorio culturale itinerante, dal Po al Sile, un teatro con le vele al posto del sipario».

« Avremo sicuramente la barca non navigabile, ma già utilizzabile, tra giugno e luglio 2023 – concludono Enrico ed Alessandra –. Fin qui una spesa di circa 100mila euro. Poi, con ulteriore budget a disposizione, metteremo anche le vele e il motore. Attraverso una piattaforma di crowdfunding, vogliamo coinvolgere la comunità, non solo economicamente, ma affinché le persone sentano questa barca come un qualcosa che appartiene a tutti. Siamo ancora pochi amici, ma questa aggregazione intorno a dei valori positivi è bellissima e ci aiuta anche nei momenti in cui ci chiediamo chi ce l’ha fatto fare». Per info: www.batipai.org ©

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