mercoledì 17 gennaio 2024
Il marchio dell'alta moda faceva confezionare i prodotti in opifici cinesi, i quali a loro volta subappaltavano il lavoro: 20 euro per una borsa venduta a 350. La società non è indagata
Lo showroom di Alviero Martini a Milano

Lo showroom di Alviero Martini a Milano - Fotogramma

COMMENTA E CONDIVIDI

Lavoro a cottimo (1,25 euro a tomaia di scarpe), manodopera in nero o irregolare che dormiva e mangiava negli stessi laboratori in cui lavorava, dentro loculi ricavati da divisori in cartongesso, a contatto con sostanze chimiche e in ambienti insalubri. E ancora, macchinari con i dispositivi di sicurezza disinseriti per essere più veloci nella produzione (un incidente mortale registrato nel corso delle indagini), picchi di consumo energetico registrati di notte o durante i festivi (per evitare i controlli), violazione degli obblighi fiscali e assicurativi.

C'è una realtà di sfruttamento dietro il luccicante delle imprese della moda di lusso che si regge sul mondo sommerso degli opifici cinesi (i quali a loro volta reclutano manodopera Cingalese o del Bangladesh) per abbattere i costi e massimizzare i profitti eludendo il diritto del lavoro. Così una borsa fabbricata in un laboratorio cinese a 20 euro verrà venduta in negozio a 350, dopo essere passata per un'altra società subappaltatrice che la fattura a 50.

A finire in Amministrazione giudiziaria la Alviero Martini spa, marchio dell'alta moda da 50 milioni di fatturato, con 96 dipendenti, posseduto dalla società Finai di Luisa Angelini. La società non è indagata, così come non lo sono i suoi dirigenti, poiché non ha organizzato il sistema di subappalti. Tuttavia, si legge nel decreto sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano «nella Alviero Martini spa vi è una cultura di impresa gravemente deficitaria sotto il profilo del controllo, anche minimo della filiera produttiva della quale la società si avvale... Nel corso delle indagini infatti si è disvelata una prassi così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d'impresa all'aumento del business. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee e isolate dei singoli, ma di una illecita politica d'impresa».

Il pm Paolo Storari, titolare dell'indagine dei carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro (diretto dal colonnello Loris Baldassarre) per caporalato negli opifici cinesi, a tal proposito parla di «decoupling, letteralmente disaccoppiamento organizzativo, in forza del quale, in parallelo alla struttura formale dell'organizzazione, volta a rispettare le regole istituzionali, se ne sviluppa un'altra, informale, volta a seguire le regole dell'efficienza e del risultato. In questo modo, la sistematica e costante violazione delle regole genera la normalizzazione della devianza, in un contesto dove irregolarità e pratiche illecite sono accettate e in qualche modo promosse».

Il fatto che la società, esternalizzando al 100% tutta la linea di moda, non si fosse dotata di modelli organizzativi idonei a impedire (in base alle legge 231 del 2001) la commissione di delitti nell’interesse aziendale, che si sia anzi spesso accontentata solo della dichiarazione formale degli appaltatori ufficiali di non subappaltare a terzi senza autorizzazione, per i magistrati milanesi ha avuto l’effetto di agevolare, in via colposa, la commissione del reato di «caporalato» dei laboratori clandestini al quale la ditta appaltatrice (l'anello intermedio) si rivolge. In uno dei fornitori della casa di moda famosa per le borse con le carte geografiche la Crocolux di Trezzano sul Naviglio, «fasonista (che confeziona capi), anche per marchi più famosi della stessa Martini», il 24 maggio scorso è morto Ruman Abdul, 26 anni, sposato da tre mesi, era arrivato in Italia nel 2014 dal Bangladesh, insieme ai genitori, a due fratelli e a una sorella. Ruman Abdul si era presentato quella mattina al suo primo giorno di lavoro (chiamato con un messaggio in chat la sera prima) ed è morto schiacciato sotto un macchinario per il confezionamento sempre la mattina stessa.

Sin dall'inizio «La società - si legge ora nel decreto del Tribunale - al fine di camuffare l'effettivo status di lavoratore in nero dell'operaio deceduto ha inviato il modello telematico di assunzione al centro per l'impiego, agli enti contributivi, assicurativi Inps e Inail nella stessa mattinata del 25 maggio, subito dopo l'infortunio». A proposito di questa società «il direttore di prodotto della Martini ha riferito di non aver fatto nessuna verifica documentale, sulla capacità organizzativa... la società non ha verificato l'organico, la certificazione delle macchine, l'effettiva capacità imprenditoriale della Crocolux», la cui linea di prodotti affidatagli dalla Martini era in realtà prodotta da terzi: il laboratorio «di Liao Xiangju, con ambienti di lavoro fortemente degradati e condizioni lavorative sotto il minimo etico».

I carabinieri hanno documentato le condizioni di sfruttamento sia con i sopralluoghi che hanno «liberato» almeno 37 operai irregolari nei loculi dove venivano fatti lavorare, sia in precedenza con l’analisi degli assorbimenti elettrici

La società sottoposta ad amministrazione giudiziaria ha pubblicato una nota in cui scpiega che «laddove emergessero attività illecite effettuate da soggetti terzi, introdotte a insaputa della società nella filiera produttiva, assolutamente contrari ai valori aziendali, Alviero Martini si riserva di intervenire nei modi e nelle sedi più opportune, al fine di tutelare i lavoratori in primis e l’azienda stessa». L’azienda aggiunge «di essersi messa tempestivamente a disposizione delle autorità preposte, non essendo peraltro indagati né la società né i propri rappresentanti, al fine di garantire e implementare da parte di tutti i suoi fornitori, il rispetto delle norme in materia di tutela del lavoro. Tutti i rapporti di fornitura della Società sono disciplinati da un preciso codice etico a tutela del lavoro e dei lavoratori al cui rispetto ogni fornitore è vincolato».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: