domenica 10 settembre 2017
Il numero uno del Gruppo San Donato: informatizzazione e apertura all'estero
Paolo Rotelli, numero uno del gruppo ospedaliero San Donato

Paolo Rotelli, numero uno del gruppo ospedaliero San Donato

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«In Italia le risorse pubbliche per la sanità non aumentano. E noi lavoriamo per il 90% con il Servizio sanitario nazionale. Lei mi chiede come si fa a crescere ancora? Con i pazienti internazionali! I russi, per esempio, vanno a curarsi in altri Paesi spendendo 3 miliardi di dollari l’anno. Di questi, 1,4 miliardi entrano nelle casse della Germania. Noi però siamo più empatici, simpatici e, non di rado, più bravi dei tedeschi. Quindi abbiamo aperto un canale con la Russia: in poche settimane abbiamo fatturato 250mila euro. Sottraendo clienti - che accogliamo con medici madre lingua - alla Germania…». Ha solo 27 anni Paolo Rotelli, figlio di Giuseppe, scomparso 4 anni fa, che ha creato il Gruppo Ospedaliero San Donato (Gsd). Oggi è lui il leader di questa realtà, la prima in Italia in ambito sanitario.

27 anni, d’accordo, ma lei parla già da manager consumato, dando del tu ai numeri…
Piano, piano, non corriamo. Mio padre diceva che per gestire bene un’azienda ci vuole cultura: un’azienda non è un’equazione. Altro che numeri. Se vuole sapere, determinanti nei miei studi sono stati filosofia, psicologia e sociologia perché mi offrono gli strumenti per capire le persone.

Vuol dirmi che un Gruppo con 18 ospedali, 17.000 dipendenti e un fatturato di 1,5 miliardi è guidato da un filosofo?

Io dico che il miglior manager è un filosofo. Certo, ho studiato nella Scuola di Amministrazione in Francia, e quindi conosco economia e giurisprudenza….

Ah ecco. Prima citava il suo papà. Nel 2013, quando lei, con la sua famiglia, ha preso le redini del Gruppo, i paragoni con il suo illustre genitore sono apparsi severi e in qualche caso impietosi. Ha avvertito la diffidenza?
Certo. Ora che non c’è più il professor Rotelli, dicevano, il Gruppo andrà malissimo, Paolo è un ragazzo, sta ancora studiando...



Invece?
Ai diffidenti rispondo che il Gruppo non è mai stato protagonista come lo è oggi. Rispetto al 2013, ci prendiamo cura di un milione di pazienti in più all’anno; erano 3,5 milioni, oggi sono 4,6. Non abbiamo mai pubblicato tanti studi e formato un così elevato numero di studenti come facciamo adesso. Di questi tre parametri vado orgoglioso. E poi, abbiamo assorbito l’acquisto dell’Ospedale San Raffaele. E siamo pronti a nuove conquiste.

Tra queste conquiste, però, non figurano due importanti ospedali milanesi, come l’Istituto Europeo di Oncologia, fondato da Umberto Veronesi, e il Centro Cardiologico Monzino, che avete provato ad acquistare assieme al Gruppo
Humanitas.
Le può suonare strano ma non è affatto un risultato negativo aver ottenuto il 40% di consenso all’acquisto nel contesto Ieo-Monzino. Per me è un successo e dimostra che il nostro progetto di acquisizione aveva un senso razionale, capito da una 'grande minoranza' di interessati.

Già. Ma pur sempre una minoranza.
Spero che l’interesse suscitato nella 'grande minoranza' possa coinvolgere anche parte della maggioranza.

Ora non è lei che corre? Mi sta dicendo che la partita non è chiusa?
Non è chiusa. Il progetto resta in piedi. Io ci credo ancora.

Torniamo ai margini di crescita della sanità privata in Italia. Che scenario
vede?
Si può crescere sulla solvenza, ma per il momento si tratta di una crescita lenta, man mano cioè che gli italiani si assicurano. Non è una pratica molto diffusa da noi. In Francia, invece, la variabile assicurativa è immediata, è lo Stato che fa l’assicuratore. E a questa pratica si affiancano le mutue private per coprire tutte le fette della spesa. Da noi vige il «sono italiano e quindi le cure sono gratis ». Ma crescere per noi è una necessità. Man mano che si va avanti la medicina è sempre più precisa ma anche più costosa perché ogni anno vengono inventati nuovi macchinari che migliorano le cure ma che ne fa fanno anche lievitare il costo perché, tanto nella laparoscopia quanto nella robotica, tutti i kit sono monouso e costano più del medico.

A proposito di esborsi, quali sono gli investimenti immediati?
Sono concentrati a Milano. Il San Raffaele avrà un nuovo blocco da 300 posti letto. Rifacciamo il Pronto soccorso, ora sovraffollato e piccolo: sarà enorme, collocato al centro dell’ospedale e dotato di tutto, comprese sale operatorie e di degenza. La spesa è di 70 milioni. In quanto all’Istituto ortopedico Galeazzi, prevedo che entro il 2020 sarà il primo in Italia anche per produzione scientifica ortopedica, superando il Rizzoli di Bologna. Avrà una nuova sede che ci costerà 250 milioni. Inoltre, impiegheremo 100 milioni per il Policlinico San Donato, alle porte di Milano, ampliandone l’attività clinica, quella di ricerca, e l’area universitaria».

Sbaglio o sta anche viaggiando molto in questo periodo?

Abbiamo aperto gli uffici a Dubai. E siamo pronti ad aprire un ospedale negli Emirati Arabi Uniti. E poi frequento New York, Los Angeles e San Francisco per capire dove va la sanità del futuro tra realtà aumentata, intelligenza artificiale e tecnologia per la sicurezza dei database dei pazienti. L’intelligenza artificiale è un supporto del medico. Provo a spiegare: il radiologo vede 600 immagini al giorno e può fare errori; l’idea non è quella di sostituire un essere umano ma di dare alla macchina la possibilità di leggere le stesse immagini, di refertarle e compararle con il parere del medico, segnalando eventuali incongruità. Un altro esempio: ogni giorno vengono stampate 150 pubblicazioni sul diabete, il medico non può leggerle tutte, la macchina sì e lo aiuta. La conseguenza? Aumentare la qualità e limitare il costo della medicina grazie alla diminuzione degli errori.

Sul fronte della ricerca, quali sono i vostri canali più promettenti?

Sul diabete stiamo progettando, con Ibm, la prima ricerca di tipo epidemiologico usando la tecnologia 'Ibm Watson' per l’analisi dei dati. E continuiamo a battere la strada del trapianto delle cellule pancreatiche nel fegato con l’obiettivo di curare questa ma-lattia: su pazienti selezionati, l’esito positivo riguarda un soggetto su due. Ma è di grande interesse, anche, il primo studio clinico, avviato al San Raffaele, per il trattamento della sclerosi multipla con infusione di cellule staminali neurali.

È percorribile la strada di una medicina cosiddetta di prossimità, con uno sviluppo dell’assistenza domiciliare, anche attraverso la telemedicina?
La 'sanità a casa' è un’ottima idea ma di impossibile realizzazione con le regole attuali. Non c’è in questo momento un quadro normativo idoneo a svilupparla. È complesso fatturare una visita realizzata in telemedicina. A Londra si può fare e si fa. Da noi no.

Lei tiene molto all’Università Vita-Salute San Raffaele, che è parte del Gruppo. Ma i posti per la facoltà di Medicina restano pochi.
Sì, qui si presentano più di 3.000 studenti per poco più di 100 posti in medicina in lingua italiana. Per il momento è così, se, in generale, il numero chiuso non sarà allargato, accadrà quanto oggi avviene in Francia, dove c’è il boom dell’impiego di medici dell’est europeo.

Che sviluppo avrà il Gruppo San Donato nei prossimi anni?
Vorremmo dare ai cittadini un servizio a 360 gradi, avvicinando i medici al paziente. Una delle prime soluzione è creare ambulatori nei centri commerciali o nei grandi quartieri, ovvero 'smart clinic' (ma con un grande gruppo alle spalle): prezzi calmierati e aperture 7 giorni su 7, senza prenotazione. A Orio, nei pressi dell’aeroporto di Bergamo, abbiamo di recente aperto la seconda. È dotata addirittura di sala operatoria per piccoli interventi È la prima volta in Italia. Nei prossimi anni sorgeranno 7-8 nostre smart clinic.

Così si riducono tempi e burocrazia?
Anche. Ma nelle cartelle cliniche, come in altre pratiche, c’è ancora troppa carta. In tre anni informatizzeremo tutto: avremo cartelle elettroniche di gruppo, un social network, una chat aziendale e una app che consentirà ai pazienti di avere un profilo Gsd. Senza carta.

Oltre alla Lombardia avete progetti nel resto d’Italia?

Anche se guardiamo all’estero, continuiamo a credere in questo Paese. Più riceviamo pazienti esteri più ci rendiamo conto che le risorse umane giuste per fare sanità sono in Italia. L’importante è che ci creda anche lo Stato. E capisca che è un miracolo offrire questo standard di cure e di copertura universalistica spendendo solo il 7,2% di pil di spesa pubblica. La salute non è un costo ma un vantaggio. Otto von Bismarck creò il welfare state in Germania non solo per ingraziarsi la popolazione ma anche per farla produrre meglio e battere i concorrenti. Distribuendo pensioni e coprendo gli infortuni ha fatto sì che il Paese diventasse una potenza. La storia gli ha dato ragione. Alla base c’era un’idea, meglio, una visione vincente.

Un po’ come per i filosofi…

Che le dicevo?

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