venerdì 17 febbraio 2023
Dopo l'accordo del 2019 non c'è stata un'accelerazione del nostro export. Con i cambi di governo (e il nuovo atteggiamento Ue) Pechino è guardata con sempre maggiore diffidenza
Il primo treno di merci cinesi diretto in Europa partito nel 2023 dalla stazione di Xingguo-Quanzhou

Il primo treno di merci cinesi diretto in Europa partito nel 2023 dalla stazione di Xingguo-Quanzhou - Ansa

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Unica nazione del G7 a firmare un accordo di collaborazione con la Cina sul progetto Belt and Road, la cosiddetta “Nuova via della Seta”, l’Italia non è poi diventata davvero quel grande socio europeo di Pechino che qualcuno sperava. Troppe cose sono cambiate da quel 23 marzo del 2019, quando a Villa Madama alla presenza di Xi Jinping e di Giuseppe Conte sfilavano ministri, funzionari pubblici e manager italiani e cinesi per siglare il memorandum, dieci accordi aziendali e diciannove intese istituzionali.

Da allora è cambiato, tre volte, il governo italiano. Dopo le ultime elezioni la Cina ha perso quello che era il suo principale interlocutore, Luigi Di Maio. Quello che, da ministro degli Affari esteri, riuscì a organizzare a ottobre 2019 un tavolo tecnico alla Farnesina per discutere di come esportare le arance rosse di Sicilia in Cina, nella terra da cui gli agrumi hanno origine . Doveva essere la dimostrazione della forza del Made in Italy. È finita malissimo: un report dell’Osservatorio di Politica internazionale del Parlamento ha calcolato in 162.460 euro il valore delle spedizioni di arance italiane in Cina nel 2019. Per il 2020, 2021 e 2022 l’Istat registra un secco zero alla voce “export di agrumi, freschi o secchi” dall’Italia alla Cina.

Ma non sono solo le arance. Il rapporto commerciale Italia-Cina non è decollato. L’export italiano in Cina è cresciuto ma non ha mai avuto quell’accelerazione che si sperava a Roma: 13 miliardi nel 2019, 12,8 nel 2020, 15,7 nel 2021, 16,4 lo scorso anno. Nel frattempo sono esplose le importazioni di merce cinese in Italia: dai 31,7 miliardi del 2019 siamo arrivati ai 57,5 del 2022 (soprattutto elettronica, abbigliamento, macchinari). La Cina è oggi il nostro secondo maggiore fornitore, ma nei fatti l’Italia resta un partner commerciale secondario per Pechino: il 24° fornitore e il 22° cliente.

Anche per le imprese italiane la Cina non è così centrale: è solo il decimo mercato di sbocco, vale il 2,6% delle vendite del Made in Italy. Dal 2019 è cambiato più in generale l’atteggiamento dell’Europa verso la Cina. Il Covid-19 originato da Wuhan ha contribuito a deteriorare un rapporto che già si stava guastando. L’attacco russo all’Ucraina ha abbassato il livello di fiducia verso le potenze non democratiche.

La linea della Commissione europea non è cambiata: «L’Ue continua a trattare con la Cina contemporaneamente come partner di cooperazione e negoziazione, concorrente economico e rivale sistemico». Nei fatti però il tentativo di firmare un accordo di cooperazione sugli investimenti, spinto dall’anima più mercatista dell’Ue, si è arenato: l’intesa raggiunta il 20 dicembre 2020 dopo sette anni di trattative è stata bloccata dal Parlamento dopo lo scontro a colpi di dazi legati alle critiche europee per il trattamento degli uiguri nello Xinjiang.

Gli investimenti cinesi in Europa sono guardati ora con molta attenzione: le rilevazioni di Merics-Rhodium, il centro studi più attento ai rapporto della Cina con il resto del mondo, notano che con 10,6 miliardi di investimenti diretti il 2021 è stato il secondo anno più fiacco dal 2013 a livello di investimenti cinesi in Europa, migliore solo del 2020 della pandemia.

Con il governo Draghi l’Italia, che è stata il terzo maggiore destinatario europeo di investimenti dalla Cina tra il 2020 e il 2021 (16 miliardi in totale) dopo Regno Unito e Germania, si è contraddistinta per l’alto livello di attenzione: ha bloccato le cessioni ai cinesi della società romagnola delle sementi Verisem, dell’azienda milanese di chip Lpe e dei droni friulani di Alpi Aviation. Operazioni come la conquista di Pirelli (su cui ci sono voci di uscita di Sinochem) o di una quota di Cdp Reti sembrano difficilmente ripetibili per Pechino.

La stessa avanzata cinese sulle infrastrutture europee, porte d’accesso per la Via della Seta, non prosegue più spedita come un tempo. Pechino ha preso la maggioranza del Pireo e circa il 10% delle capacità europee di trasporto via mare (vera chiave del commercio internazionale) ma ora è accettata solo come socio di minoranza.

È il ruolo che il colosso cinese Cosco ha dovuto accettare al porto Vado Ligure, dove nel 2019 è entrata con il 40%, ed è quello che ha scelto di concederle il governo tedesco su Hamburger Hafen und Logistik (Hhla), la società che controlla il porto Amburgo. Il cancelliere Scholz a ottobre ha autorizzato la cessione di una quota del 24,9%, inferiore al 25% che avrebbe dato ai cinesi il diritto di veto. Tramite Hhla, la Cina è riuscita a mettere un piede anche a Trieste: la società tedesca controlla il 50,1% della piattaforma logistica triestina, che per molti mesi (prima del Covid) era sembrata destinata a finire sotto il controllo di China Merchants Marine.

Soci di minoranza e meglio se ben accompagnati: nelle imprese strategiche ai cinesi l’Ue non concederà di più.

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