giovedì 16 gennaio 2025
La strada per un pieno accreditamento, però, è ancora lunga. E passa principalmente da tre vie: formazione universitaria, Ordine professionale e riconoscimento sociale
Archeologi impegnati in uno scavo

Archeologi impegnati in uno scavo - Ansa

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A più di dieci anni dalla legge 110/2014, che ha riconosciuto la figura professionale dell'archeologo, è boom di richieste, anche grazie alla spinta del Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilienza. Sono circa 6mila gli archeologi attivi in Italia, che detiene la più alta concentrazione di beni archeologici al mondo. I decreti attuativi del 2019 hanno reso evidente quali fossero le attività e quindi gli sbocchi professionali. In tale maniera è stato chiarito che la professione di archeologo è un mestiere di alta qualificazione intellettuale, un consulente a tutto tondo in numerosi campi applicativi (archeologia preventiva, progettazione, pianificazione territoriale, catalogazione, perizie ed expertise, musealizzazione eccetera) e non necessariamente o esclusivamente legato alla cantieristica. Negli ultimi anni, inoltre, grazie all'apertura dei nuovi indirizzi professionali e anche grazie ai fondi del Pnrr, il mestiere di archeologo si è evoluto: si registra nel 2024 una richiesta maggiore dell'offerta, con fatturati annui che si sono stabilizzati e tendono sempre più ad alzarsi. Attualmente solo il 12% dichiara un fatturato annuo minore di 12mila uro, mentre il 49% dichiara tra i 12mila e i 24mila euro annui e ben il 38% dichiara tra 24mila e oltre 48mila euro.

Anche il terzo censimento nazionale condotto dall’Ana-Associazione nazionale archeologi mostra un quadro in controtendenza rispetto alle risposte fornite nelle precedenti indagini. La professione è ancora in larga parte femminile (circa il 65,51%), seppur facendo registrare un certo riequilibrio rispetto agli anni passati. Ampia la pletora degli under 40 (63%), alto il livello di istruzione: l’88% ha un titolo post laurea o lo sta conseguendo. A fronte di oltre 500 iscritti all’Ana, l’indagine ha coinvolto 1.080 professionisti italiani. Oltre il 75% lavora nel privato (il 57,34% a partita Iva), come lavoratore autonomo, titolare di impresa o impiegato (a tempo determinato o indeterminato) presso aziende o cooperative. Il restante 25% lavora nel pubblico, ma solo circa il 17% come dipendente. Dal confronto con i precedenti censimenti, il primo svolto nel 2006 e il secondo nel 2011, emerge comunque un’evoluzione positiva: per chi ha conseguito la formazione specifica, l’attività di archeologo è diventata l’unica (76,47% degli intervistati) o quella prevalente (57,32% del restante 25%). Cresce anche la longevità professionale: se nel 2006 oltre il 50% degli archeologi era in servizio da meno di tre anni e solo il 5% poteva vantare oltre 16 anni di anzianità, oggi il 20% degli intervistati dichiara oltre 20 anni di lavoro alle spalle e solo il 34% circa è sul mercato del lavoro da meno di cinque anni. Una crescita che va di pari passo con quella delle mensilità lavorate durante l’anno (nel 2011 il 63% dichiarava di lavorare meno di sei mesi su 12) e con l’aumento dei compensi: se nel 2011 il fatturato lordo annuo era di circa 15-20mila euro solo nel 12% degli intervistati, oggi si registra un fatturato lordo annuo di circa 18-24mila euro nel 48,57% degli intervistati, registrando però compensi anche di oltre 4mila euro lordi al mese (9,32% dei casi) soprattutto tra coloro che sono nella fascia di età tra 40 e 50 anni.


La strada per un pieno accreditamento della professione di archeologo, però, è ancora lunga. E passa principalmente da tre vie: formazione universitaria, ordine professionale e riconoscimento sociale. «Il quadro che si delinea – spiega Marcella Giorgio, presidente dell’Ana – ci permette di cogliere appieno la crescita della nostra professione, accelerata negli ultimi anni dagli sviluppi sull’archeologia preventiva, i progressi normativi sul riconoscimento professionale e i progetti Pnrr. Questo non significa, naturalmente, che le battaglie del passato siano tutte vinte e che il futuro sia roseo. Il malessere di un passato critico, percepito come ancora molto vicino, ha lasciato una percezione di negatività diffusa in molti colleghi. È, invece, importante prendere coscienza di quanto la situazione si sia evoluta negli ultimi dieci anni, consentendo di fare dell’archeologo un professionista a tutti gli effetti, che vive della sua professione sempre meglio e che, sempre meno, ne sopravvive saltuariamente. In questa maniera possiamo mettere meglio a fuoco gli obiettivi di crescita professionale del futuro: da un mercato del lavoro sempre più sano ed equamente regolamentato dal punto di vista di tariffe e condizioni lavorative, al riconoscimento sociale delle competenze di un archeologo nella gestione di territori e comunità, fino all’istituzione di un ordine professionale che possa riconoscere la complessità della professione di archeologo garantendone i diritti».

L'identikit e le differenze di genere

Donna, di circa 42 anni, libera professionista ed estremamente formata (molto spesso ha conseguito oltre alla laurea anche dottorato e specializzazione), che guadagna annualmente tra i 25mila e i 30mila euro, dunque poco al di sotto degli stipendi medi nazionali. È l'identikit dell'archeologo italiano del 2024 stando alla ricerca Discovering the Archaeologists of Italy 2024, condotta dalla Cia-Confederazione italiana archeologi. Le analisi, fondate su una base statistica di 1.250 risposte, rilevano dunque ancora una prevalenza femminile, sebbene la presenza maschile sia in aumento: la differenza percentuale tra uomini e donne si è infatti ridotta, passando da un rapporto di 70/30 a quello attuale di 64/36. Nonostante l'archeologia venga ancora percepita da molti come una professione "per le donne", la strada per una piena parità di genere in questo campo è ancora lunga. Analizzando le retribuzioni, infatti, la ricerca ha evidenziato un persistente divario tra generi quando si parla delle fasce più alte dei compensi (da 30mila fino a oltre i 100mila euro annui), in cui troviamo circa il 15% delle donne, contro il 29% degli uomini, quasi il doppio. Altri dati sui compensi evidenziano i nessi con il livello di formazione: infatti, ben il 70% degli archeologi ha una formazione superiore alla laurea, rispetto al 53% del 2014, mentre i soli triennalisti sono rimasti come dieci anni fa intorno al 6%. Sono dunque i laureati che negli ultimi dieci anni hanno investito sulla propria formazione, con il 42% che ha un diploma di specializzazione, il 15% un dottorato e il 13% entrambi i titoli.

Dal punto di vista salariale sembra essere il dottorato la chiave per le retribuzioni più alte, in una percentuale decisamente maggiore al diploma di specializzazione. I possessori della sola laurea triennale sono, invece, anche quelli che mediamente hanno retribuzioni più basse. Per quanto riguarda i contratti, crescono quelli a tempo indeterminato: nel 2024 sono il 30,1% rispetto al 16% del 2014, mentre l'11% sono a tempo determinato (rispetto al 14% del 2014). Il 58,9% degli archeologi è invece un libero professionista (contro il 43% del 2014): nello specifico, il 52% lavora con la partita Iva (il 31,9% dei quali da più di dieci anni), il 5,4% lavora da collaboratore senza partita Iva. Infine, il 22% è dipendente di un'amministrazione pubblica, il 17,9% dipendente nel settore privato. Solo il 2,6% infatti si dichiara disoccupato, contro il 28% del 2014. Nel complesso, la professione appare quindi decisamente più stabile di dieci anni fa, elemento che contribuisce più di ogni altro alla lettura positiva della situazione attuale, una circostanza che sembra aver inciso positivamente sulla qualità della vita dei professionisti, meno soli di dieci anni fa e più propensi a mettere su famiglia (il 33,15% dichiara di avere figli, rispetto al 19% del 2014).

Dati decisamente più negativi sono invece quelli che emergono sul tema delle molestie sul lavoro, con più di un archeologo su cinque che dichiara di averne subite. Anche qui pesa il divario di genere: sono infatti per lo più donne le professioniste che riferiscono di molestie. Nel 60% dei casi si tratta di episodi che causano stress e ansia sul luogo di lavoro, ma solo il 27% denuncia.





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