Export alimentare, «il dollaro svalutato spaventa più dei dazi»
di Paolo Viana
I timori delle imprese italiane a Tuttofood si concentra anche sulla moneta americana in ribasso: «Si dice che il cambio potrebbe arrivare a 1,25 penalizzando molto le nostre vendite all’estero»

Prosegue sotto una cappa di incertezza l’edizione 2025 di Tuttofood, la fiera B2B dell’agroalimentare, che si chiude domani al quartiere fieristico di Rho. Negli incontri dei buyer pesa la doppia incognita dei dazi di Trump e della svalutazione del dollaro. Preoccupazioni motivate dal giro d’affari che è in gioco: l’export italiano negli Usa cuba 73 miliardi sui 623 totali e più del 10%, pari a 7,8 miliardi, è rappresentato da pasta, pizze, olio e vini, insomma finisce sulle tavole degli americani. Aprendo la vetrina dell’agroalimentare italiano (e non solo) il ministro Lollobrigida ha sparso ottimismo a piene mani, dicendo che arriverà una soluzione «grazie a Giorgia Meloni». Subito dopo, però, ha anche precisato che «le trattative commerciali sono tutte intestate all’Unione europea» e ha ammesso che qualche preoccupazione c’è. Ancor più realista il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini: «Abbiamo un +11 per cento in termini di esportazione, ma dobbiamo dare certezza agli operatori. Il lavoro iniziato dal governo italiano con la nostra presidente del Consiglio e portato oggi a livello europeo, per arrivare a un punto di caduta che eviti l’introduzione di dazi, è di fondamentale importanza per un settore come il nostro, che vede nel mercato Usa la possibilità di essere il primo mercato per importanza nei prossimi anni».
Sul tavolo, c’è la minaccia di imporre un dazio del 20% a tutto il made in Italy in partenza per gli States. Secondo indiscrezioni, potrebbe essere ridotta al 10. Secondo Giacomo Ponti, presidente dell’omonima società di conserve e aceti, «in quanto misura emergenziale non dovrebbero condizionarci molto a lungo, ma restano un problema. «Secondo uno studio che abbiamo fatto - spiega l’imprenditore novarese che guida anche Italia del Gusto – il margine assoluto (ossia Il margine assoluto la differenza numerica tra il prezzo di vendita e il costo di acquisto di un prodotto) nel caso di un dazio del 10% sarebbe “solo” del 5%, il che non renderebbe meno impattante l’introduzione delle tariffe daziarie, ma potremmo cercare di gestirla».
La preoccupazione delle imprese presenti a Tuttofood si appunta più sul cambio del dollaro che sui dazi. Ponti la spiega così: «Siamo partiti da 1,04 euro per dollaro e siamo a 1,14, il che vuol dire che il made in Usa ha acquistato una competitività del 10 per cento. Si dice che la moneta americana potrebbe arrivare a 1,25: non si parla di 1,45 come in passato ma sicuramente quel valore costituirebbe una forte penalizzazione per le nostre esportazioni». La sensazione prevalente è che i dazi rappresentano una emergenza ma la politica valutaria di Trump no: «Se permane la strategia monetaria attuale, per il made in Italy si apre una stagione difficile nei rapporti con gli Usa». Che restano un ottimo mercato. Vale il 10% dell’export di Ponti (28 milioni), assorbe il 33% dell’aceto balsamico prodotto dalla società novarese, la quale infatti sta nuovamente investendo oltre Oceano, ma solo nella rete commerciale. «Non avrebbe senso costruire degli stabilimenti - ci spiega il presidente della società - perché l’80% dell’export è in aceto balsamico di Modena che è un prodotto Igp».
Ovviamente, un apprezzamento di questi prodotti sugli scaffali americani rilancerà l’italian sounding e non aiuterà certamente a valorizzare la qualità del made in Italy. «Noi esportiamo mozzarella di bufala campana pronta al consumo, ma un nostro concorrente italiano la produce negli Usa importando latte congelato. Ovviamente è la brutta copia della vera mozzarella, ma è competitiva» ammette Lorenzo Corvino, ceo dell’omonimo caseificio casertano. È preoccupato anche un gigante come Lactalis: «Gli Stati Uniti rappresentano uno dei mercati più strategici, vi esportiamo il 6% del totale dei formaggi, con una quota che sale al 10% per Parmigiano Reggiano. Tuttavia, gli effetti dei dazi doganali minaccia pesantemente la competitività del Made in Italy.
Da oggi i formaggi duri saranno soggetti a un dazio complessivo del 35%, sommando il 15% già esistente a un ulteriore 20%, mentre la mozzarella affronterà un dazio totale del 30%. Un incremento significativo, che rischia di frenare una crescita finora molto positiva» dichiara Mauro Frantellizzi, Direttore di Lactalis Italia Export.
Non teme invece la concorrenza la mela stregata, un semifreddo esclusivo delle Fabbriche riunite di Torrone di Benevento, che dal 1908 producono torroni e dolci aromatizzati. «Purtroppo i dazi arrivano mentre era in corso una bella apertura del mercato americano ai nostri prodotti, che peraltro restano una nicchia di qualità» commenta però Raffaele Turi.
I settori più colpiti dalla guerra commerciale sono quelli della pasta e della pizza, icone del made in Italy. Uno dei pastifici più antichi, l’abruzzese Cocco, non mostra di temere oltre modo la barriera daziaria: già adesso questa pasta de luxe (un chilo può costare fino a sette dollari sul mercato americano e in Italia si viaggia sui tre euro) è già gravata da dazio eppure, come ci dice l’amministratore Lorenzo Cocco, «esportiamo il 40% della produzione e il mercato statunitense resta strategico».
La politica trumpiana risulta più impattante se la si veda dalla parte dei produttori di pizza surgelata, un prodotto che negli ultimi anni ha fatto passi da gigante sul piano tecnologico, della qualità e del contenuto di servizio. «Temiamo più l’effetto dollaro che i dazi – ammette Giacomo Baseotto, export manager del gruppo trevigiano Margherita, che esporta il 90% della produzione e il cinque lo colloca negli States – ma è presto per valutare l’impatto reale dei secondi». Più preoccupato il gruppo Di Marco, sponsor della Nazionale e leader assoluto nella Pinsa romana: «siamo in espansione su quel mercato e avvertiamo degli scrupoli nei buyer ma confidiamo che sia una fase superabile» dichiara il manager Lorenzo Tedeschi. Chi ha anticipato le mosse di Trump è la pordenonese Roncadin, leader nella pizza surgelata. Il Ceo, Dario Roncadin, precisa prima di tutto che la qualità paga anche sul mercato statunitense: «cerchiamo di mantenerci “artigiani” anche se con tecniche e volumi industriali e infatti esportiamo il 75% di un fatturato che si aggira intorno ai 200 milioni di euro: gli Usa assorbono il 15%». Quest’azienda, aggiunge, ha delocalizzato una parte della produzione nei dintorni di Chicago in quanto la sua strategia, da tempo, è di produrre una pizza “americana” con prodotti locali, mantenendo comunque alta l’asticella della qualità tradizionale, e destinando alla pizza “italiana” la produzione europea. Una linea produttiva è già attiva negli Usa e sarà raddoppiata quest’anno.
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