Crollano le assunzioni agevolate: -68% nel 2025

Liguria, Sardegna, Valle d'Aosta e Trentino le regioni che ricorrono meno alle misure. Lavoratori svantaggiati, Unimpresa: non sono un costo, ma un investimento
November 21, 2025
Crollano le assunzioni agevolate: -68% nel 2025
Ivan Moretti, co-ceo di Zeta Service/ WEB
In Italia crollano le assunzioni agevolate. In particolare, secondo gli ultimi dati forniti dall’Inps, tra il primo semestre del 2024 e lo stesso periodo del 2025, il calo è addirittura del 68%, mentre era stato solo dell’1,7% tra il 2023 e il 2024. Le motivazioni? Secondo l’Istituto, il calo è legato anche alla cessazione della validità della Decontribuzione Sud, che prevedeva una agevolazione contributiva del 30% per i rapporti di lavoro avviati nel Meridione: tale misura, ancora in leggero aumento nel primo semestre 2024 rispetto allo stesso periodo del 2023 (+6,5%), dal 2025 non è più attiva. In suo luogo, per il periodo 2025-2029, la legge di Bilancio dello scorso anno ha introdotto una “nuova” decontribuzione per il Mezzogiorno applicabile esclusivamente alle assunzioni a tempo indeterminato effettuate entro il 31 dicembre dell’anno precedente la richiesta. La variazione pesantemente negativa del primo semestre del 2025 ha comportato anche una marcata diminuzione della quota delle agevolazioni sul totale delle attivazioni, scesa all’8,1% (cioè le agevolazioni vengono attivate solo per otto assunzioni su cento) rispetto allo stesso periodo del biennio 2023-2024, quando la percentuale superava il 25%.
Ma perché gli imprenditori fanno un utilizzo così scarso di queste opportunità? Secondo gli esperti, dipende dalla scarsa conoscenza delle misure, ma non soltanto. «Generalmente – spiega Ivan Moretti, co-ceo di Zeta Service, realtà italiana della consulenza e servizi Hr e payroll, fondatore di Payrocks – possiamo ipotizzare che le imprese stiano assumendo appoggiandosi in maniera meno rilevante ai sostegni pubblici rispetto al recente passato. Però questa dello scarso tasso di take-up è una situazione che si ripropone non solo in Italia, ma anche a livello globale, anche se generalmente, per quanto attiene alla nostra conoscenza del settore, in maniera meno incisiva che alle nostre latitudini. Che non è cosa da poco: il rischio è quello di rallentare la competitività del sistema e delle imprese. Spesso l’elemento comune, al netto degli oggettivi fattori normativi, è la misconoscenza delle opportunità offerte».
Andando a osservare i dati a livello territoriale, le regioni meno “virtuose”, almeno in relazione alle principali misure sfruttabili, Esonero giovani, Incentivo donne e apprendistato, sono: sul fronte dell’apprendistato, la Sardegna (1,6% di attivazioni agevolate in apprendistato sul totale), il Molise (2,7%) e la Basilicata; per la misura “Esonero giovani” la Valle d’Aosta, la Liguria e la Puglia (tutte e tre con solo l’1% di attivazioni con agevolazioni per giovani sul totale); per la misura Incentivo donne il Trentino Alto Adige (solo lo 0,3% di incentivi femminili sul totale delle attivazioni), la Liguria e la Valle d’Aosta (entrambe a quota 0,4%). Anche nelle regioni più popolose e industrializzate, tuttavia, la situazione non è rosea:  la Lombardia ha solo il 4,7% di attivazioni agevolate in apprendistato, il 2,2% per “Esonero giovani” e lo 0,8% per “Incentivo donne”; l’Emilia Romagna ha rispettivamente il 7,5% (apprendistato), l’1,7% (giovani) e lo 0,6% (donne); il Veneto registra il 6,8% (apprendistato), l’1,7% (giovani) e lo 0,7% (donne); per il Lazio si contano il 4,8% (apprendistato), l’1,1% (giovani) e lo 0,7% (donne).
Sul versante delle tipologie di aziende, le più coinvolte sono quelle fino a 15 dipendenti, il 40,7% del totale. Tra le principali misure è l’apprendistato la più fruita, con 244.545 contratti nel semestre e che incide del 5,2% sul totale delle attivazioni contrattuali a livello nazionale contro l’1,5% e l’1% delle altre due (numeri che si concentrano soprattutto nelle pmi). I settori meno “virtuosi”? Per quanto riguarda i contratti di apprendistato, scarse attivazioni negli ambiti dell’agricoltura, silvicoltura e pesca (1,7% sul totale delle attivazioni) e delle attività professionali, scientifiche e tecniche, dell’amministrazione e dei servizi di supporto (2,6%). Nell’ambito dell’apprendistato i settori migliori, invece, risultano le attività finanziarie e assicurative (14%) e le attività immobiliari (9,4%). Per quanto concerne i giovani, i settori che sfruttano meno la misura a loro favore sono quello delle costruzioni (1%) e quello delle attività artistiche e di intrattenimento (1,1%). Meglio, invece e ancora una volta, le attività finanziarie e assicurative (4,6%). E le donne? Agricoltura (0,1%), costruzioni (0,2%) e servizi di informazione e comunicazione i settori meno pronti a sfruttare l’incentivo, meglio fanno le attività immobiliari (2,6%) e quelle professionali, scientifiche e tecniche (2,3%).
Per incrementare l’accesso a queste misure, prosegue Moretti, «occorre agire anche sui responsabili della funzione Risorse umane, affinché le conoscano meglio e le sappiano applicare: il sapersi muovere tra gli incentivi rappresenta uno strumento di governo, ma anche di credibilità interna, nei confronti dei massimi vertici aziendali. Questo non è un elemento da sottovalutare, perché offre infatti una visione completa e integrata dei costi del personale, permette di verificare la conformità normativa e di presentare al responsabile finanziario scenari economici concreti, basati su dati oggettivi, garantendo risparmi immediati».
Lavoratori svantaggiati, Unimpresa: non sono un costo, ma un investimento
Gli incentivi fiscali a lungo termine per le piccole e medie imprese che assumono lavoratori svantaggiati non sono un costo per lo Stato, ma un vero e proprio investimento con ritorni tripli rispetto alla spesa iniziale. Per ogni euro investito in incentivi fiscali, lo Stato ne ricava almeno 3,5 tra risparmi e nuove entrate. Ragion per cui, un piano strutturale di agevolazioni fiscali garantirebbe un saldo positivo di bilancio già dal primo anno, rafforzando al tempo stesso crescita e coesione sociale. Ipotizzando un incentivo medio di 6mila euro l’anno per 50mila nuove assunzioni, il costo per lo Stato sarebbe di 300 milioni di euro annui. A fronte di questa cifra, i benefici sarebbero, dunque, ben superiori: 600 milioni di euro di risparmi sulla spesa per sussidi e ammortizzatori sociali e circa 450 milioni di maggior gettito fiscale e contributivo, per un totale di oltre un miliardo di euro. Il saldo netto positivo ammonterebbe quindi a 750 milioni di euro ogni anno. È quanto emerge da un’analisi del Centro studi di Unimpresa, secondo cui i vantaggi non si esauriscono nel conto immediato. L’ingresso di nuove fasce di lavoratori nel mercato, in particolare madri single e disoccupati di lunga durata, porterebbe un aumento dei consumi stimato in circa 250 milioni di euro annui, con un effetto positivo sul pil pari a +0,15 punti percentuali e ulteriori entrate fiscali indirette.
«Gli incentivi alle assunzioni non rappresentino solo una misura di welfare, ma una vera politica industriale. Si tratta di una leva essenziale per ridurre la disoccupazione, aumentare il tasso di occupazione femminile, affrontare l’emergenza manodopera che colpisce le imprese e accrescere la competitività del sistema produttivo nazionale. L’economia italiana, nel corso del 2025, presenta un quadro di crescita moderata ma con significative sfide strutturali. Il pil è previsto crescere del +0,4%, con un’inflazione al 2,1%, mentre il tasso di disoccupazione è atteso intorno al 6,4%. Le pmi rappresentano il pilastro dell’economia italiana, costituendo oltre il 90% di tutte le imprese, e impiegando il 66% della forza lavoro. Nel 2024 si contavano circa 15.900 startup e pmi innovative con un fatturato complessivo di 11,1 miliardi di euro. Tuttavia, il comparto manifatturiero è sceso a 48,40 punti, a giugno, indicando una moderata contrazione. Il quadro macroeconomico e le prospettive restano incerte. Per tutte queste ragioni, sono indispensabili nuovi sostegni da parte dello Stato e la manovra sui conti pubblici per il 2026 è una formidabile occasione per andare in questa direzione», commenta il consigliere nazionale di Unimpresa, Marco Salustri.
Secondo il Centro studi di Unimpresa, quando si parla di incentivi fiscali destinati alle piccole e medie imprese, l’attenzione tende a concentrarsi sul lato della spesa pubblica. Si sottolinea il costo per lo Stato, senza considerare adeguatamente i ritorni fiscali e macroeconomici che un simile strumento è in grado di generare. Un’analisi tecnica e basata sui dati dimostra invece che gli incentivi a lungo termine per le assunzioni di categorie svantaggiate non rappresentano un onere per le finanze pubbliche, ma un investimento con ritorni tripli rispetto all’esborso iniziale.
L’ipotesi di partenza è quella di un incentivo medio di 6mila euro annui per ogni nuovo assunto, sotto forma di credito d’imposta o esonero contributivo parziale. Applicato a 50mila assunzioni, comporterebbe un impegno per lo Stato di 300 milioni di euro all’anno. In tre anni, la spesa complessiva ammonterebbe a 900 milioni. A fronte di questo investimento, i benefici sarebbero nettamente superiori. Ogni disoccupato costa allo Stato circa 12mila euro l’anno tra sussidi e mancato gettito contributivo. Portare al lavoro 50mila persone significherebbe risparmiare 600 milioni di euro annui. Inoltre, ciascun lavoratore occupato genera in media 9mila euro di entrate tra Irpef e contributi. Moltiplicato per 50.000 unità, si tratta di altri 450 milioni di euro. La somma dei due effetti porta a oltre un miliardo di benefici annui, a fronte di 300 milioni di spesa: il saldo netto positivo è di 750 milioni l’anno. In tre anni, l’investimento di 900 milioni garantirebbe benefici complessivi per 3,15 miliardi, con un saldo positivo di 2,25 miliardi.
Oltre ai risparmi e alle nuove entrate fiscali, esistono benefici indiretti spesso trascurati. L’ingresso nel mercato del lavoro di persone oggi inattive comporta un aumento del reddito disponibile, stimabile in circa 5.000 euro annui per ciascun lavoratore. Con 50mila nuove assunzioni, questo significa 250 milioni di euro in più di consumi. L’effetto sui conti pubblici è duplice: da un lato, la spesa aggiuntiva sostiene la crescita del Pil di circa 0,15 punti percentuali l’anno; dall’altro, la maggiore domanda interna genera ulteriori entrate fiscali indirette, come l’Iva, per una cifra prudenzialmente stimabile in 50-70 milioni di euro.
Gli incentivi fiscali non vanno letti solo in termini di ritorno immediato, ma anche come strumento per affrontare fragilità strutturali del mercato del lavoro italiano. L’Italia registra un tasso di occupazione femminile fermo al 52,5%, ben 13 punti al di sotto della media europea. Le madri single, in particolare, hanno un tasso di occupazione poco superiore al 50%, con una donna su cinque che lascia il lavoro dopo la maternità. Queste cifre si traducono in una perdita di capitale umano e in un ostacolo alla crescita potenziale del Paese. Un piano di incentivi mirati alle madri lavoratrici e ai disoccupati di lunga durata contribuirebbe a ridurre tali divari. Inoltre, risponderebbe a un’altra emergenza avvertita dalle imprese: la carenza di manodopera.
Nel 2025 il vacancy rate, cioè il tasso di posti vacanti non coperti, è salito al 2,3%, contro l’1,7% della media europea. Settori strategici come manifatturiero, edilizia e turismo registrano deficit di decine di migliaia di unità. Gli incentivi alle assunzioni permetterebbero di allargare il bacino di lavoratori disponibili e di sostenere la produttività. Per valutare l’impatto su scala più ampia, è utile considerare scenari alternativi. Con 100mila assunzioni incentivate, la spesa pubblica ammonterebbe a 600 milioni, mentre i benefici diretti salirebbero a 2,1 miliardi: il saldo netto positivo sarebbe di 1,5 miliardi. Con 200mila assunzioni, la spesa crescerebbe a 1,2 miliardi, ma i benefici arriverebbero a 4,2 miliardi, con un saldo di tre miliardi. In ogni scenario, il ritorno per lo Stato è largamente superiore all’investimento. Ogni euro speso in incentivi genera almeno 3,5 euro di ritorno tra risparmi e nuove entrate.
Gli incentivi fiscali a lungo termine destinati alle pmi che assumono categorie svantaggiate non devono essere letti come misure di welfare, ma come una vera politica economica. Gli effetti positivi si distribuiscono su più fronti: miglioramento dei conti pubblici, aumento del Pil, rafforzamento della competitività delle imprese, riduzione delle disuguaglianze sociali. In un contesto in cui la crescita economica resta debole (+0,4% nel 2025) e il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi in Europa, un piano strutturale di incentivi alle assunzioni rappresenta una scelta di lungimiranza economica. È un investimento capace di restituire più di quanto costa, sostenendo al tempo stesso lo sviluppo, la coesione sociale e la sostenibilità fiscale del Paese.
 

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