C'è una mappa aggiornata dei dazi: India e Brasile "pagano" il 50%
Sono i due Paesi più penalizzati al momento dalle tariffe imposte dagli Stati Uniti. Trump esulta, ma dovrà fare i conti con l'aumento dei costi per le aziende Usa e lo spettro dell'inflazione

«È mezzanotte!!! Miliardi di dollari in dazi stanno ora affluendo verso gli Stati Uniti d’America!». Donald Trump celebra l’entrata in vigore delle nuove, ingenti tariffe da lui imposte sui Paesi di tutto il mondo. Un cambiamento radicale della politica commerciale americana che equivale a un esperimento inedito, perché l’ultima volta che il protezionismo era così pronunciato, nel 1934, l’economia mondiale non era globalizzata.
Fino a ieri praticamente tutti i beni di ogni Paese erano soggetti a una tariffa minima del 10%. Da ieri, le tariffe variano notevolmente da Paese a Paese. Le stangate più dure sono toccate alle merci provenienti da Brasile (50%), Laos (40%), Myanmar (40%), Svizzera (39%), Iraq (35%) e Serbia (35%). Altri 21 Paesi sono soggetti a imposte superiori al 15%. Tra questi figurano diversi Stati da cui gli Stati Uniti dipendono fortemente per una varietà di beni, come Vietnam (20%), India (25%), Taiwan (20%) e Thailandia (19%).
Particolarmente punita l’India, che Trump mira a penalizzare per il suo acquisto di petrolio dalla Russia raddoppiando l’aliquota al 50% dal 27 agosto. Mosca, grazie alla vendita del greggio, anche all’Europa, può continuare a finanziare la guerra di aggressione contro l’Ucraina, che il presidente americano aveva sostenuto che avrebbe fermato nel giro di 24 ore. Ma se l’uso dei dazi come leva di pressione politica ha funzionato con l’Unione Europea, potrebbe rivelarsi un boomerang nei rapporti di Nuova Delhi, il Paese più popoloso del mondo, nella competizione con la Cina. Il costo delle tariffe addizionali sui beni importati dall’India rischia di rendere “impraticabile” l’export verso gli Usa, sostengono gli esportatori indiani, che si sono avvicinati rivolti a Pechino, con la quale condividono un confine lungo 3.380 km. La notizia di una missione del premier Narendra Modi in Cina è trapelata proprio ieri: un chiaro messaggio a Washington.
I beni dall’Unione Europea sono soggetti a dazi del 15%, comprese le auto, se in effetti la dichiarazione congiunta tesa a dare seguito all’intesa di principio verrà firmata dal capo della Casa Bianca.
Le merci provenienti da Messico e Canada sono invece esenti da dazi doganali se conformi all’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada. In caso contrario, le merci provenienti dal Messico sono soggette a balzelli del 25%, e dal Canada del 35%.
Ma il presidente Usa assicura che non è finita: «Vedremo molto altro, vedrete sanzioni secondarie», ha detto, promettendo di colpire le importazioni di semiconduttori da tutto il mondo con un dazio del 100% e assicurando agli americani lauti guadagni. In effetti, da aprile, Washington ha incassato 152 miliardi di dollari, circa il doppio dei 78 miliardi di dollari entrati nelle casse federali nello stesso periodo dell’anno fiscale precedente. E la cifra annuale sarà di circa 360 miliardi.
Non sono però introiti regalati. Le aziende Usa stanno già facendo i conti con maggiori costi di produzione e di importazione, e l’impatto delle tariffe sta cominciando a farsi sentire anche sui consumatori.
I dazi sono infatti già costati alle case automobilistiche 12 miliardi di dollari, il colpo più duro al settore dal Covid, stando al Wall Street Journal. E se le aziende per ora hanno aumentato solo leggermente i prezzi per rientrare dei costi, presto saranno costrette a farlo.
Finora diversi fattori hanno infatti attutito l’impatto dei dazi: il loro rinvio, le scorte accumulate dalle aziende, le forniture ordinate con anticipo, la decisione delle società di assorbire gli aumenti. Già i listini autunnali riflettono però che la tregua è finita. Stando al Budget Lab di Yale, gli americani vedranno un’imposta media del 18,3% sui prodotti importati, l’aliquota più alta dal 1934. Il centro di ricerca politica indipendente ha stimato che i prezzi aumenteranno dell’1,8% nel breve termine a causa della guerra commerciale di Trump, con una perdita di reddito di 2.400 dollari per famiglia solo nel 2025.
Fino a ieri praticamente tutti i beni di ogni Paese erano soggetti a una tariffa minima del 10%. Da ieri, le tariffe variano notevolmente da Paese a Paese. Le stangate più dure sono toccate alle merci provenienti da Brasile (50%), Laos (40%), Myanmar (40%), Svizzera (39%), Iraq (35%) e Serbia (35%). Altri 21 Paesi sono soggetti a imposte superiori al 15%. Tra questi figurano diversi Stati da cui gli Stati Uniti dipendono fortemente per una varietà di beni, come Vietnam (20%), India (25%), Taiwan (20%) e Thailandia (19%).
Particolarmente punita l’India, che Trump mira a penalizzare per il suo acquisto di petrolio dalla Russia raddoppiando l’aliquota al 50% dal 27 agosto. Mosca, grazie alla vendita del greggio, anche all’Europa, può continuare a finanziare la guerra di aggressione contro l’Ucraina, che il presidente americano aveva sostenuto che avrebbe fermato nel giro di 24 ore. Ma se l’uso dei dazi come leva di pressione politica ha funzionato con l’Unione Europea, potrebbe rivelarsi un boomerang nei rapporti di Nuova Delhi, il Paese più popoloso del mondo, nella competizione con la Cina. Il costo delle tariffe addizionali sui beni importati dall’India rischia di rendere “impraticabile” l’export verso gli Usa, sostengono gli esportatori indiani, che si sono avvicinati rivolti a Pechino, con la quale condividono un confine lungo 3.380 km. La notizia di una missione del premier Narendra Modi in Cina è trapelata proprio ieri: un chiaro messaggio a Washington.
I beni dall’Unione Europea sono soggetti a dazi del 15%, comprese le auto, se in effetti la dichiarazione congiunta tesa a dare seguito all’intesa di principio verrà firmata dal capo della Casa Bianca.
Le merci provenienti da Messico e Canada sono invece esenti da dazi doganali se conformi all’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada. In caso contrario, le merci provenienti dal Messico sono soggette a balzelli del 25%, e dal Canada del 35%.
Ma il presidente Usa assicura che non è finita: «Vedremo molto altro, vedrete sanzioni secondarie», ha detto, promettendo di colpire le importazioni di semiconduttori da tutto il mondo con un dazio del 100% e assicurando agli americani lauti guadagni. In effetti, da aprile, Washington ha incassato 152 miliardi di dollari, circa il doppio dei 78 miliardi di dollari entrati nelle casse federali nello stesso periodo dell’anno fiscale precedente. E la cifra annuale sarà di circa 360 miliardi.
Non sono però introiti regalati. Le aziende Usa stanno già facendo i conti con maggiori costi di produzione e di importazione, e l’impatto delle tariffe sta cominciando a farsi sentire anche sui consumatori.
I dazi sono infatti già costati alle case automobilistiche 12 miliardi di dollari, il colpo più duro al settore dal Covid, stando al Wall Street Journal. E se le aziende per ora hanno aumentato solo leggermente i prezzi per rientrare dei costi, presto saranno costrette a farlo.
Finora diversi fattori hanno infatti attutito l’impatto dei dazi: il loro rinvio, le scorte accumulate dalle aziende, le forniture ordinate con anticipo, la decisione delle società di assorbire gli aumenti. Già i listini autunnali riflettono però che la tregua è finita. Stando al Budget Lab di Yale, gli americani vedranno un’imposta media del 18,3% sui prodotti importati, l’aliquota più alta dal 1934. Il centro di ricerca politica indipendente ha stimato che i prezzi aumenteranno dell’1,8% nel breve termine a causa della guerra commerciale di Trump, con una perdita di reddito di 2.400 dollari per famiglia solo nel 2025.
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