In guerra parla la propaganda

September 23, 2025
In guerra parla la propaganda
Ansa |
I titoli giornalistici non brillano quasi mai per precisione semantica, specialmente da quando i modelli di business delle principali testate editoriali si affannano dietro qualche clic per raggranellare i proventi persi dentro le edicole. Però credo ci sia un limite da non oltrepassare nel proporre un’informazione al pubblico, se di giornalismo stiamo parlando. Il mestiere impone che, per quanto sensazionale sia, la notizia non sia travisata nel senso delle parole utilizzate per diffonderla.
Faccio un esempio, così forse ci si capisce meglio. Qualche settimana fa i titoli di quasi tutte le testate del Paese hanno rilanciato quanto stava accadendo in Israele con le “pubblicità” promosse dal ministero degli Affari Esteri e da quello della Diaspora. Siccome sono stati pianificati video su YouTube e sono stati chiamati alcuni influencer per smentire i report delle Nazioni Unite sulla carestia nella Striscia di Gaza, la comunicazione che mette in scena mercati, ristoranti, gelaterie e supermercati pieni di cibo è stata chiamata, appunto, pubblicità. Ma c’è una differenza marcatissima tra il linguaggio della réclame e quello della propaganda, sono due mestieri completamente diversi e non credo serva precisarlo ulteriormente qui. Se governi e brand hanno finito per contaminare i due registri, non significa che il pubblico non sia attrezzato per coglierne la differenza. Il pensiero critico, per fortuna, continua ad abitare le sensibilità delle persone capaci di riconoscere il controcanto governativo che usa videomaker e retoriche pubblicitarie per mostrare giovani gazawi durante lo shopping o in fila per un kebab, insieme a commercianti che preparano dolci e banchi di frutta al mercato. Ma tutte queste comparse sono figuranti cooptati in un esercito che combatte una guerra comunicativa e arruola influencer, israeliani e americani, per controbattere le narrazioni dei cosiddetti «media ostili». È una guerra anche quella mediatica, si chiama propaganda ed è più meschina, perché non conta neanche i morti, semplicemente non li vede. Non sono una notizia. Allora cosa può fare chi scrive? Usare le parole con cognizione di causa: chiamando propaganda bellica, una cosa che sembra pubblicità, ma non lo è. Semplicemente usa gli stessi spazi, finanche le stesse seduzioni manipolatorie, per spostare l’attenzione dei più. E chi fa pubblicità, sa che l’attenzione è l’unica cosa che dobbiamo guadagnarci con il nostro scrivere. C’è il libro di un collega che stimo molto interamente dedicato a questo tema: “Campagne di guerra” di Giuseppe Mazza. Lì dentro le cose sono chiamate con il loro nome, anzi, vista la corposità di una rassegna che attraversa 150 anni di comunicazione bellica, si riuscirà a fare i dovuti distinguo, le pagine non mancano e la buona scrittura neanche. Ma il titolo di un giornale non è il saggio di uno studioso e le poche parole che usa devono essere precise, per non confondere target che da una parte credono e dall’altra muoiono.

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