Awfa al-Naami - Saferworld
Non è facile per lei, detenuta nel 2019 per tre mesi dalle milizie Houthi del Nord dello Yemen, parlare di pace mentre il suo Paese è ancora in guerra e, allo stesso tempo, mentre una Coalizione americana e britannica bombarda obiettivi yemeniti per ristabilire la libera navigazione nel Mar Rosso. «Ci si ritrova intrappolati in opposte narrative di guerra quando, quel che vorremmo, la sola cosa che vorremmo, è ritornare a vivere la vita quotidiana in pace, armonia, unità nazionale».
Awfa al-Naami è una notissima attivista yemenita che ha contribuito a demilitarizzare larghi settori della società in guerra. Country manager per la ong inglese “Saferworld”, un master in business administration in tasca conseguito in India, Awfa ha alle spalle anni di attivismo e impegno come gender advisor e gender project manager per la National Foundation for Development and Humanitarian Response e ha lavorato a progetti di genere con la Japan International Cooperation Agency. Ha competenze in peacebuilding, programmazione comunitaria e inclusione delle donne nel peacebuilding: in parole più semplici, ha sempre lavorato in favore della pace tra le dirigenze e le minoranze della società yemenita: persone migranti dal Corno d’Africa, persone della più bassa casta sociale, i muhamasheen (ossia i neri yemeniti), donne. Si definisce «un architetto che è passata dalla progettazione di case alla progettazione di vite più sicure» e, da donna per le donne, Awfa al-Naami non si è mai arresa nel lavoro umanitario, soprattutto da quando il Paese ha fatto giganteschi passi indietro nell’autonomia e nell’autodeterminazione del genere femminile.
Da quando la condizione delle donne in Yemen è drasticamente peggiorata?
La condizione delle donne si è deteriorata dagli anni Ottanta in poi. La generazione di mia madre ha avuto tutta la libertà possibile e i diritti; la mia generazione è simile e potrei dire che abbiamo avuto solo qualche restrizione occasionale e non sistematica a causa di gruppi più conservatori, ma fortunatamente non era la norma. Questo fino agli anni Duemila, quando l’esposizione ad altre culture confinanti – saudita, emiratina, iraniana – ha spinto parecchi yemeniti a restringere la propria visione dell’identità culturale e nazionale. Ho iniziato a vedere un progressivo adattamento alla colonizzazione regionale esterna e nel 2011, nonostante il coinvolgimento delle donne nella rivoluzione yemenita sia stato eccezionale, non è coinciso con un cambiamento effettivo della società perché chi ha rifiutato il cambiamento della società yemenita, ossia le milizie oggi al potere sia al Nord che al Sud, ha intuito che un cambiamento per noi donne avrebbe potuto avere impatto enorme nella società. Dunque ha scelto di rifiutare ogni tipo di cambiamento e di imporci usi e costumi che ci hanno precipitato in una condizione di inferiorità. Quando le milizie Houthi sono arrivate al potere nel 2014, quel pensiero sulle donne – ossia la convinzione che un certo comportamento restrittivo in pubblico era degno della nostra supposta tradizione locale, delle nostre “pure” origini – era già maturo: così le milizie hanno potuto convincere facilmente la maggior parte degli uomini locali ma anche delle donne che quelle restrizioni imposte erano moralmente giuste.
Perché le milizie hanno fatto questo?
Semplice. Se vuoi controllare le comunità, inizi a controllare i più deboli: i marginalizzati, i bambini, gli adolescenti, le donne, poi gli uomini poveri, poi i religiosi. A poco a poco, ti prendi tutto finché non hai tutti in mano. Per combattere questa deriva culturale, noi yemeniti dovremmo ricordarci di nuovo chi siamo. E adesso è interessante vedere anche come le milizie usano la politica internazionale e la condizione palestinese per rafforzare il loro potere interno. I loro dirigenti agiscono da forti usando la forza ma la verità è che hanno paura dei deboli che parlano e che vogliono cambiare le cose: per questo ci sopprimono e per questo opprimono le donne yemenite. Affinché non siamo d’esempio per nessuno.
Lei è impegnata nel lavoro umanitario da molti anni. Ma dall’inizio della guerra ha cercato di portare avanti delle iniziative diverse dai classici interventi nelle ong, cioè non precipitate dall’alto o subite dagli yemeniti, ma accettate e condivise. Con gli yemeniti finalmente protagonisti. Come è arrivata a queste soluzioni?
Il primo anno di guerra, il 2015, è stato orribile per le storie che ascoltavi dagli yemeniti che erano stati reclutati oppure che avevano visto altri compatrioti morire in guerra, anche per fame. È stato un anno davvero intenso e doloroso. Perché, più lavoravo nel settore umanitario, più sono entrata in un buco nero in cui il ciclo di orrori della guerra si ripeteva ancora e ancora, senza interrompersi mai. In quel ruolo, nonostante io abbia apprezzato la possibilità di salvare qualcuno, mi sono chiesta se non si poteva fare qualcosa di differente, se non si potessero esplorare altre modalità di aiuto per creare un cambiamento non imposto. Ho capito che bisognava agire a un micro-livello della società yemenita: era più difficile trovare persone disposte a seguirmi, ma una volta portate a bordo, la garanzia di un cambiamento di più lunga durata era evidente. Così ho fatto, così è successo.
Nel concreto, in cosa è consistito il suo intervento?
La ong Saferworld mi ha permesso di lavorare sulle donne. L’approccio decoloniale che Saferworld segue è molto in linea con i miei pensieri: credo davvero che la pace si costruisca dalle basi della società e non debba mai essere imposta dall’alto. Mi ero già chiesta: come si può generare un cambiamento sociale erogando pochi soldi? Si fa come abbiamo sperimentato fino ad ora: si consegnano quantitativi di danaro piccoli e flessibili, direttamente alle comunità con cui si stabilisce insieme un piano d’azione che ha delle priorità precise. La chiave è coinvolgere bambini, giovani, persone non incluse nella società più ampia, lavorando con molti partner locali, e dando potere di azione alle comunità, senza replicare un modello coloniale. Come è possibile farlo in sicurezza, senza promettere nulla di straordinario ai beneficiari? Si può, spiegando che non esiste la bacchetta magica e che tutto si costruisce piantando un seme che tocca a noi yemeniti in prima persona fare crescere. Lì è la sfida.
Dunque, come ha convinto le comunità locali che deporre le armi è più importante e migliore che combattere per una causa politica?
È stato difficile. All’inizio del progetto, nel 2017, le dirette conseguenze della guerra colpivano le comunità, private di tutti i bisogni di base, dal cibo alle medicine. Parlare di pace in mezzo a tutta quella rabbia era quasi impossibile. Le persone pensavano a mantenere una reputazione sociale in base al sostegno militare dato o ricevuto, oppure ci chiedevano sostegno finanziario o aiuti umanitari in modo passivo. Abbiamo iniziato a coinvolgerle in campagne di pulizia dei quartieri, costruzione di pannelli solari o di sistemi idraulici. All’inizio abbiamo faticato a spiegare ai beneficiari che questo era un modo diverso di lavorare, che era una modalità attiva e per questo abbiamo iniziato a lavorare nei quartieri più vulnerabili, spiegando che non siamo agenti del governo locale o delle milizie. Abbiamo iniziato a Taiz, la città in assoluto più colpita dalla guerra, e adesso tanti quartieri sono convolti nel progetto. I finanziamenti sono limitati a circa 500 dollari alla volta per interventi molto mirati e i risultati, in termini di ricostruzione delle relazioni nei quartieri, sono migliori rispetto a quando distribuivo un chilo di zucchero a persona. Così, dovendo fare qualcosa insieme e coordinarsi, gli abitanti hanno iniziato a parlarsi sui problemi del quartiere, a proteggerlo e a proteggersi a vicenda, anche nei momenti più difficili. Prima di iniziare qualsiasi progetto, come si può immaginare, si procedeva con decine di incontri e di dialoghi. Quando tutti erano bene o male d’accordo, non c’erano più problemi. Le donne, nemmeno a dirlo, sono state la chiave del cambiamento.
Con quali comunità avete avuto più successo?
Con tutti i marginalizzati in Yemen: i muhamasheen cioè gli yemeniti neri che sono considerati i paria di questa società. Con la piccola comunità ebraica di Sana’a. Con le comunità del Nord, nelle aree colpite in questi anni dai missili sauditi. Con i campi di sfollati a Sana’a, che costituiscono la forza lavoro più umile. Con le donne a Taiz. Con i disabili, sia Taiz che ad Aden. Ma abbiamo portato avanti progetti anche con piccole organizzazioni che si occupano di diritti umani, con giornalisti, insegnanti, avvocati, giudici. Oggi queste categorie sono marginalizzate, nel senso che non hanno voce e rischiano la persecuzione e l’estinzione.
Lei ha delle speranze per uno Yemen in pace? Nonostante gli Houthi a Nord siano entrati a gamba tesa nel conflitto tra Israele e Gaza, i rapporti con i sauditi si sono certamente appianati e, per la prima volta dopo quasi dieci anni, il governo legittimo di Aden ha approvato una ripresa delle comunicazioni, e voli diretti dalla capitale giordana Amman alla capitale del Nord dello Yemen, Sana’a, per i cittadini yemeniti.
Adesso che vivo da espatriata nel Regno Unito e non sono più ritornata dopo il 2019, spero di rivedere lo Yemen che ho nella mia memoria, quello della mia infanzia. Uno Yemen in cui le persone erano capaci di parlarsi senza opinioni e giudizi. Uno Yemen in cui era facile sorridere mentre piangere era una cosa rara.
Lei, appena è stata rilasciata dalla prigionia nel 2019, ha detto: "La pace significa che non importa quanto siamo in disaccordo. Dobbiamo dialogare: io devo accettare tutti i tuoi difetti e tu devi accettare tutti i miei difetti". Crede si arriverà presto a questo punto, a questa concezione della pace?
Spero con tutto il cuore che non siamo più tanto lontani dal raggiungere questo obiettivo, nonostante il prossimo anniversario di guerra sarà il decimo. Spero di vedere lo Yemen dell’accoglienza che ancora conosco nel cuore degli yemeniti, quando parlo con loro singolarmente, ma vorrei vederlo anche nella terra e nell’ambiente intorno a loro. Vorrei vedere questo Yemen risplendere ancora.