mercoledì 22 febbraio 2023
La giovane lavorava al ministero della Pace fino all'arrivo degli "studenti coranici" a Kabul. Ora è rifugiata negli Stati Uniti e coordina una rete di donne fuori e dentro l'Afghanistan
Maryam Rayed

Maryam Rayed - .

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Con questa e numerose altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

Maryam Rayed non è dovuta scappare da Kabul. Nell’agosto 2021, quando l'Afghanistan è caduto di nuovo, dopo vent'anni, nelle mani dei taleban, la giovane attivista era da poco partita per Washington con in tasca una borsa di studio Fulbright e l’ammissione a un master all’università cattolica di Georgetown.

«L’idea — spiega — era di studiare governance e diplomazia e di fare ricerche sulle donne e la sicurezza per poi di tornare al mio impiego al ministero afghano per la Pace e servire la mia travagliata ma bellissima patria».

Nonostante la situazione politica di Kabul fosse già instabile, Maryam non poteva immaginare che il suo viaggio educativo si sarebbe trasformato in un esilio: «Dall'oggi al domani ho perso tutto, ho dovuto accettare la realtà che tornare nel mio amato Afghanistan non è più possibile».

Alla fine di ogni frase la 27enne, che ha fatto domanda d’asilo negli Stati Uniti, aggiunge “per ora”. «Al momento sono apolide. Presto probabilmente sarò una rifugiata politica». Per ora.

«Al Ministero per la Pace, ogni giorno mi battevo con le mie colleghe per aumentare la partecipazione delle donne al processo decisionale pubblico e al processo di pace con gli stessi taleban: organizzavamo incontri con leader politici, istituzioni internazionali e società civile che includessero sempre le donne. Non era facile, ma siamo riuscite a imporre la presenza femminile a uomini che credevano di essere gli unici a poter parlare di pace».

Quel progresso è perso, ammette sconsolata, ma solo “per ora”. «Sono nata durante il primo governo dei taleban ed ero convinta che non saremmo mai tornati indietro — continua —. Quindi fatico ad accettare che nel ventunesimo secolo dobbiamo ancora parlare di diritto all'istruzione e al lavoro delle donne. Ma devo farlo. E nell'ultimo anno, insieme alle mie sorelle in esilio negli Usa, mi sono concentrata sull'assicurare che le donne afghane dispongano di piattaforme online per continuare a parlare dei loro diritti, a partire dall'istruzione e dal lavoro, ma non solo».

Da Washington, infatti, Rayed continua il suo attivismo. Di recente ha lanciato una petizione da parte delle donne afghane in esilio che chiede ai leader islamici, in particolare all’Organizzazione dei Paesi islamici, di condannare i divieti “barbarici” pronunciati dai taleban contro le donne in nome dell’islam, ma allo stesso tempo chiede alle istituzioni internazionali di mantenere il dialogo aperto con gli studenti del Corano. «Per riavere il nostro Paese non dobbiamo permettere che venga isolato, dimenticato. È quello che vogliono i nemici delle donne. Invece dobbiamo rafforzare i collegamenti, le reti tra le donne all'interno e le donne fuori dell’Afghanistan. Dobbiamo documentare tutto ciò che sta accadendo; dobbiamo mostrare la violenza in tutte le sue forme, in particolare la violenza contro le donne, renderla inaccettabile».

Per questo Rayed resta in contatto con le giornaliste in Afghanistan, che subiscono discriminazioni sistematiche e resistono a un regime che fa di tutto per cancellarle dal panorama dei media. «I giornalisti stanno scrivendo la prima bozza della storia — dice — e l'eliminazione delle donne dai media è un tentativo di cancellare le loro narrazioni e la loro presenza dalla storia».

Il suo attivismo comprende divulgare quello che apprende all’università su piattaforme di dibattito online, come l’Afghanistan Women’s Think Tank, l’organizzazione non profit che ha fondato. «La mia ricerca conferma che maggiore è il divario di genere di un Paese, maggiore è la probabilità che sia coinvolto in un conflitto violento — spiega —. Dati empirici mostrano che quando le donne sono impegnate nei processi decisionali e per la pace, i Paesi sono più pacifici. Ma il ruolo della partecipazione delle donne alla pace e alla sicurezza rimane ancora poco compreso. Le donne hanno costituito solo il 2% dei mediatori e il 9% dei negoziatori nei colloqui di pace tra il 1992 e il 2011. Questo deve cambiare».

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