sabato 5 ottobre 2019
Tra i neo cardinali il 53enne teologo e poeta, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa: prenderò spunto dal mio Portogallo che è crocevia di culture
Tolentino Mendonça: la mia porpora? Una chiamata all’incontro e al dialogo
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Scrivi «porpora». Ma puoi leggere tranquillamente «amore». Per José Tolentino Mendonça i due termini sono praticamente sinonimi. «Un amore da vivere senza riserve, fino in fondo. Proprio come ha fatto Gesù sulla croce». Il neo porporato portoghese, 54 anni ancora da compiere (è nato il 15 dicembre 1965), teologo e apprezzato poeta, oltre che - dal 26 giugno dello scorso anno - archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, nell’incontro con i giornalisti che ha preceduto di un giorno il Concistoro di ieri, sottolinea proprio questa dimensione del suo nuovo status cardinalizio. Insieme a quella, non meno importante, dell’apertura al mondo e della propensione all’incontro che, ricorda, «è già nel dna di noi figli del Portogallo».

Che tipo di cardinale sarà José Tolentino Mendonça?
Pessoa diceva che il Portogallo è il luogo in cui la terra finisce e il mare comincia. E infatti da sempre l’incontro con l’altro è stato una caratteristica della nostra storia e di una cultura profondamente radicata nel cristianesimo. Prenderò ispirazione proprio da questo, cioè dal Portogallo come luogo di incontro di culture molto diverse: America Latina, Africa, Lontano Oriente, naturalmente l’Europa. L’esperienza del nostro piccolo Paese può essere un ritratto di quello che è l’esperienza cristiana normale. Oggi occorre promuovere l’incontro e il dialogo tra le persone e le culture, proprio come fa il Papa.

Eppure non manca chi vuole costruire muri e voci critiche si levano anche contro il Pontefice. Lei come vive questo momento?
Io guardo sempre il volto del Santo Padre. È un volto sorridente e sereno, che manifesta la gioia del Vangelo. E questo è il modo migliore per allontanare le ombre. D’altra parte lo stesso Francesco ci invita ad avere fiducia e a manifestare un cuore universale. Ringrazio Dio di vivere in questo tempo. Un tempo di apertura, in cui le frontiere non sono più invalicabili e sempre di più capiamo che la dimensione dell’incontro e dello stare insieme è un valore. Siamo chiamati, come cristiani e come uomini di Chiesa, alla sfida di materializzare la cattolicità in forma creativa.

Lei è al tempo stesso un poeta e un arcivescovo. Come tiene insieme le due dimensioni?
L’esperienza della Parola di Dio è quella che fa unità. Abbiamo due gambe, due braccia, due occhi. Siamo abituati a una diversità che alla fine converge in un unico cammino. Allo stesso modo la frequentazione della Parola, che è una eredità cristiana molto profonda, può sposarsi con la poesia, come chiave importante anche per ascoltare la voce e i "silenzi" di Dio.

Che cosa aggiungerà ora la porpora alla sua poesia e che cosa riceverà invece questa sua poesia dalla porpora?
La poesia, per sua natura, più che aggiungere, sottrae, poiché mette a nudo, svuota. Infatti il più grande dono che la poesia mi ha dato è lo svuotamento, il bisogno profondo dell’ascolto, dell’incontro. Dunque penso che anche la porpora porterà alla poesia una tradizione straordinaria di Parola e di ascolto, di umanità e di fede che sono sicuro mi arricchirà anche come poeta.

Negli esercizi predicati al Papa lo scorso anno lei parlò di sete e di desiderio. Qual è la sete più grande dell’uomo contemporaneo?

La sete di Dio, ne sono certo. Il nostro tempo ha una nostalgia incredibile di Dio, un bisogno di senso, di verità, di bellezza e di bene. Ed è con questa sete che la Chiesa di oggi è chiamata a dialogare in una forma cordiale, per interpretare e dare risposta a quello che alla fine è un desiderio spirituale.

Forse per questo Pier Paolo Pasolini è il suo autore italiano preferito? In fondo anche lui aveva sete di Dio?
Per un certo tempo della mia vita ho lavorato su molti autori italiani. Per esempio ho tradotto in portoghese Cristina Campo, ho letto Natalia Ginzburg e Cesare Pavese. Pasolini e la sua critica della modernità mi hanno fatto riflettere su un progresso che alla fine diventa regresso, perché elimina ogni diversità sia linguistica che nel modo di vivere. Questo scrittore italiano diceva una frase che io amo molto. Il più moderno è sempre il popolo. È vero. E comprenderlo costituisce una sfida importante per tutti noi.

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