sabato 20 gennaio 2018
Reportage / Nella regione peruviana di Madre de Diòs in 80mila scavano nel fango. 4mila le donne finite nei 130 postriboli locali. L'impegno della procura anti-tratta di Puerto Maldonado
Un minatore nella regione di Madre de Dìos in Perù (Capuzzi)

Un minatore nella regione di Madre de Dìos in Perù (Capuzzi)

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La voce è impastata. «Ho sonno, devo dormire», ripete biascicando le parole, pesanti come macigni. Le forze cedono. Il castigliano si annebbia e riaffiora il quechua, sua lingua madre. Così si esprimeva a Puno, sull’altopiano andino. A Isabel manca terribilmente la nebbia frizzante della Cordigliera. E il silenzio. Dov’è ora, gli stereo dei bar saturano l’aria con le loro note prepotenti. La cumbia si mescola con la lambada, la salsa con il pop. Da quando è arrivata, un mese fa, non riesce a riposare. Ora, però, l’incubo potrebbe finire. Dipende da quella telefonata.

Isabel, così, respira e risponde alle domande di Luis Alberto Sánchez, giovane e coraggioso capo della procura anti-tratta di Puerto Maldonado. «Non piangere. Ci mettiamo all’opera. Presto verremo a prenderti», dice prima di chiudere, il pubblico ministero dell’entità creata tre anni fa per combattere il traffico di donne nella regione di Madre de Diós, la capitale peruviana della prostituzione forzata.

Isabel – il nome è di fantasia –, 15 anni, è una delle almeno 4mila schiave del sesso, un quarto minorenni, di La Pampa, la “città che non esiste”. Sulle mappe ufficiali non figura: l’area è segnata come riserva forestale della Tambopata, scrigno di biodiversità dell’Amazzonia peruviana e del pianeta. Di alberi e animali, però, in questo punto, non ce ne sono più. Al loro posto, abbarbicata al chilometro 108 dell’autostrada Interoceanica, dal 2006, si trova una selva di lamiere e compensato, in cui si concentrano 130 postriboli clandestini, sportelli bancari, negozi di cellulari, bancarelle, mototaxi e perfino una gigantesca ruota panoramica. Circa 80mila persone. Tutte intrappolate dal business dell’oro illegale.

I fiumi di Madre de Diós sono ricchi del metallo. A partire dagli anni Duemila, il boom dei suoi prezzi – e la costruzione dell’autostrada – hanno spinto nella zona una massa di disperati, provenienti dal Perù andino, il più povero. Data l’assenza dello Stato, in breve, le miniere artigianali sono diventate ostaggio delle mafie. Sono queste a garantire, a colpi di machete e fucile, la docilità della manodopera, il combustibile necessario per muovere le pompe aspiranti, la “sicurezza” e soprattutto i canali di contrabbando attraverso cui “l’oro sporco” fluisce – al costo di 35mila dollari al chilo – nel circuito delle grandi imprese di Usa e Europa, Italia inclusa. Il 22 per cento del metallo del Perù – sesto produttore mondiale – viene estratto a Madre de Diós senza che vi sia una sola miniera legalmente riconosciuta.

Le mafie hanno, inoltre, colto le potenzialità di espansione che avrebbe avuto “l’industria” del sesso a pagamento nella zona. Degli attuali 80mila minatori, distribuiti in otto punti di estrazione, quasi tutti sono giovani e soli. Per loro, i “postri-bar” diventano l’unica forma per evadere da un lavoro massacrante e condizioni di sussistenza indegne. Insieme alla foresta – di cui ha ingoiato già 50mila ettari –, la febbre dell’oro brucia le vite di migliaia e migliaia di ragazzine, vendute e comprate nel mercato della prostituzione coatta.

Madre de Diós è metafora concreta di quanto devastazione ambientale e crisi sociale siano collegate, come scrive papa Francesco nell’enciclica Laudato si’. Non sorprende, dunque, che Bergoglio abbia scelto di fare tappa ieri in questo frammento dolente d’Amazzonia, dove «i gemiti di sorella terra si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo». «Andiamo almeno a prendere Isabel», dice il procuratore Sánchez mentre si prepara all’operazione. Si parte da Puerto Maldonado all’alba. La cicatrice Interoceanica lacera in due la selva. Gli alberi si fanno via via più radi mentre l’auto procede in direzione La Pampa-Mazuco. Sul lato destro c’è il cosiddetto corredor minero. Qua l’estrazione non è vietata. Lo Stato l’ha data in concessione ai minatori artigianali. Nessuna delle microimprese – da cui dipende il 49 per cento del Pil regionale – ha, però, riconoscimento formale, nonostante i tentativi dei governi del presidente Ollanta Humala, prima, e Pedro Pablo Kuczynski.

Gli operai lavorano, dunque, senza assicurazione, misure di sicurezza e contributi. La parte a sinistra dell’autostrada, invece, è ufficialmente off limits per le miniere. «È la “zona cuscinetto” della riserva amazzonica della Tambopata: qualunque tipo di attività è vietata. Men che meno una invasiva come l’estrazione dell’oro», spiega Sánchez. Eppure, in procinto de La Pampa, in entrambi i lati, un velo logoro di vegetazione copre a fatica l’ocra limaccioso delle pozze di lavorazione. Addentrandosi un po’ nei pantani amazzonici, si scorgono gli scivoli di legno, dove il metallo, misto a fango, viene pompato. Là viene accumulato e poi “lavato” con il mercurio: se ne usano 2,8 chili per ogni chilo d’oro. Il tutto finisce nei fiumi in cui pescano i 29mila indigeni di Madre de Dios.

Immersi nel fango tossico quasi fino alla vita, in tute di stoffa logora, i minatori lavorano in gruppi di quattro. La squadra riceve il 25 per cento di quanto estratto, il resto va all’impresario, padrone del motore e dei materiali impiegati. Non è comunque poco per nessuno: in media, ogni gruppo estrae un valore d’oro equivalente a circa 10mila dollari al giorno. L’interesse a “proteggere il business” è forte. Le vedette sono addestrate a captare la presenza dei pochi “ficcanaso” che si addentrano oltre la boscaglia. Immediatamente viene avvertita la “sicurezza” alias i sicari. Ogni anno, là “scompaiono” 250 persone.

Luis Alberto Sánchez, però, sa destreggiarsi. «Ricevo minacce quasi ogni giorno, 60 “impresari” mi hanno denunciato… Non ho paura. Ho il vantaggio di avere la mia famiglia nella capitale. Per quanto mi riguarda, ho assunto il rischio tempo fa. Devo andare avanti, per Isabel», dice il procuratore mentre sale sulla moto e sfreccia via.

Sa che Isabel si trova a Balata, verso l’interno di La Pampa, vicino alle pozze di estrazione più remote. Svolta, dunque, a El Farón, il postri-bar più grande che dà il nome – non ufficiale dato che la città non esiste – alla piazza principale di La Pampa. Un rettangolo polveroso su cui sono ammassati, l’uno sull’altro, 32 locali a luci rosse. Centinaia di ragazze attendono i clienti sulle sedie di plastica. Le “nuove arrivate” hanno ancora i capelli nero lucente delle indigene dell’altipiano, portate qui con l’inganno di un lavoro ben pagato. Le altre li hanno schiariti per essere alla moda.

Sánchez raggiunge la destinazione. Il blitz è veloce: giusto il tempo di caricare Isabel. Poi la corsa fino a Puerto Maldonado. «Avevamo la certezza che fosse minorenne e abbiamo potuto procedere direttamente. In caso contrario, dobbiamo dimostrare che la giovane sia trattenuta con la forza. Le ragazze, per paura di rappresaglie contro le famiglie, dicono di essere là di propria volontà».

Dal 2015, quando la Procura è nata, nessun trafficante è stato condannato con sentenza definitiva. L’anno scorso, però, Sánchez è riuscito a riscattare 700 donne. «Lo so che vengono subito rimpiazzate. Ma almeno Isabel è libera». Questa notte, forse, riuscirà di nuovo a dormire.

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