martedì 28 aprile 2020
Le settimane di interruzione delle consuete attività dei sacerdoti con i cambiamenti nella pastorale stanno inducendo nel nostro clero riflessioni sul proprio ministero e sulla missione della Chiesa
Il vescovo di Cremona Napolioni celebra Messa nel Duomo deserto

Il vescovo di Cremona Napolioni celebra Messa nel Duomo deserto - Ufficio stampa diocesi Cremona

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Questo articolo nasce nel contesto di un progetto di collaborazione avviato da Avvenire con il quotidiano cattolico francese La Croix. (QUI IL PROGETTO)

Da un giorno all’altro: l’agenda che si svuota, il tempo che si allarga, il silenzio che ritorna, amico atteso e spesso dimenticato. La vita dei sacerdoti è sospesa, come quella di tutti gli italiani, aspettando che succeda “qualcosa”. Ma mentre i più si adoperano per ricucire legami che la distanza logora, nel cuore di tanti sale giorno dopo giorno la riflessione inevitabile su cosa sta dicendo questa quarantena al modo di svolgere il proprio ministero, quale messaggio c’è dentro giornate nelle quali è scomparsa l’abituale piena di liturgie, riunioni, colloqui, corsi, impegni sociali di ogni tipo. Il tempo liberato, le iniziative a distanza, i contatti diradati impongono un lungo ritiro dentro se stessi, in ascolto della voce che li ha chiamati, e continua a farlo, oggi – semmai – più di prima. Cosa diventerà il sacerdozio in fondo a questo viaggio del quale non si intravede ancora la fine? «Stiamo seguendo il cammino di Emmaus, il Signore ci chiede di stare con la gente come lui con i due viandanti: e dunque affiancando, ascoltando, assumendone il dolore, prima di celebrare».

Monsignor Antonio Napolioni ha fatto l’esperienza del coronavirus fino in fondo: contagiato già a inizio pandemia, ha trascorso giorni difficili in ospedale, mentre la sua diocesi di Cremona perdeva 9 preti, uccisi dal Covid 19. «La domanda di Eucaristia in un tempo in cui viene negata è evidente, ma il prete deve portare alla gente anzitutto il Vangelo. E imparare di nuovo ad ascoltarla». Alla Chiesa viene chiesto di «riscoprire le vocazioni di laici che costruiscono il regno di Dio con la loro vita. L’esemplarità di medici e infermieri ci pone l’obbligo di restituire onore anche alle scelte vocazionali nelle professioni come servizio agli altri». Dei suoi preti Napolioni è stato colpito dal legame profondo con le comunità, «una corrispondenza con la vita di gente che sta mostrando di sentire in maniera forte quanto vale un uomo di Dio che le si dedica totalmente». Una Chiesa incarnata in sacerdoti così, che muoiono come chi è loro affidato, non dev’essere «centripeta, aspettando che le persone vadano da lei, ma davvero in uscita. Perché tutti ne attendono la vicinanza». Da questo deserto riemergerà una Chiesa «più umile, perché ha visto che al centro non ci sono le sue proposte, o le strutture, ma solo il Signore».

La lezione della malattia è profonda: «Stiamo facendo una corale esperienza di invocazione, che nasce da una realtà concreta, drammatica. Prima ancora che una preghiera, è un grido al quale porta noi sacerdoti la condivisione con tutti di un vissuto di dolore, di paura, di lutto che attende di essere confrontato col Vangelo. Un grido che non è ancora fede ma espressione di un dramma, il senso di una mancanza che introduce all’incontro con Cristo». I preti stanno comprendendo che «non dobbiamo anteporre le nostre risposte, ma saper distillare le domande. Solo allora la risposta sarà vera e credibile». Se questo è un deserto, cosa ascolta un prete in tanto silenzio? A molti sacerdoti la quarantena ha spezzato l’incessante succedersi delle troppe attività che spesso logorano il nostro clero. «Non nascondo che le prime due settimane ero persino sollevato: finalmente serate libere, giorni di pace, preghiera, riflessione. Poi ho cominciato a pensare che, se ero così contento, vuol dire che la vita di “prima” non mi ren- deva felice».

A don Paolo Alliata, parroco milanese del centro, noto per le sue affollatissime serate di rilettura in chiave cristiana di classici della letteratura, la pandemia ha portato un regalo inatteso: «Ho ripreso ad ascoltarmi. La mia vita, così piena e stimolante, mi aveva stremato. Negli ultimi anni, con un succedersi di impegni che mi è sempre piaciuto, ho scoperto che in realtà è prevalsa la fatica, il sentirmi con l’acqua alla gola. E ora ho cominciato a chiedermi: quando questa parentesi sarà chiusa, vuoi davvero tornare alla vita di prima? La risposta è chiara: no». Non c’è già un approdo, «è un ribollire interiore che mi richiama un detto dei padri del deserto sul cuore dell’uomo che è come una brocca di acqua mescolata a sabbia: bisogna smettere di agitarsi perché la sabbia si posi, e l’acqua torni limpida».

La vita stressante di tanti sacerdoti come lui ha come «occluso le sorgenti, dove ora sto tornando, molto in profondità, dentro di me: lì trovo Dio, sepolto. Bisogna disseppellirlo di nuovo, e lasciarlo parlare ». E’ come rialfabetizzarsi. La prima parola che don Paolo ha avvertito è un richiamo a fare ciò che gli riesce meglio: raccontare, rivolgendosi a chi ascolta meglio, i bambini. «Ho iniziato a registrare per ogni sera un racconto della buonanotte, di tradizioni e autori diversi, che poi va su Youtube. Da pochi giorni ho aggiunto brevi pensieri del buongiorno per adulti, pescando in autori e libri non religiosi, per far emergere un messaggio spirituale». Un passo dopo l’altro, è il riappropriarsi di una vita meno compressa, con la compagnia di domande come questa: «La comunità cristiana è davvero quella che abbiamo conosciuto fino a ieri? Ora che siamo distanti scopriamo che non c’è solo il ritrovarsi a fare cose insieme. Mi chiedo se non abbiamo appiattito la dimensione pastorale e la complessità dell’annuncio sulla liturgia pensando che bastasse, mentre dobbiamo “respirare” di più nella preghiera e nella Parola».

Agli antipodi come ambiente, ma in sintonia sui pensieri in corso, è don Roberto Cassano, che a Roma guida la comunità di San Paolo della Croce a Corviale, periferia popolare, povertà diffusa. «Qui il virus aggrava crisi endemiche, le esigenze di base si sono amplificate – spiega mentre in parrocchia gli arriva una donazione per i pacchi viveri con cui sostiene decine di famiglie senza nulla –. Questa quarantena mi ha donato più tempo, lo dedico anzitutto alla preghiera di intercessione per la mia gente, che ha paura del futuro». Usando «al massimo» le tecnologie digitali la parrocchia riesce a «non far sentire nessuno abbandonato: Messa, Rosario, lectio, adorazione, anche una serata per raccontarci qualcosa. E la comunità si allarga ben oltre la cerchia di chi la frequentava». Una rivelazione: «Mi sono chiesto: è solo perché non sanno cosa fare, o riusciamo a parlare alla loro vita, là dove si svolge?».

Don Cassano

Don Cassano - Agensir

Don Roberto vive con altri due sacerdoti, «studenti nelle università pontificie, ma con i quali per gli impegni di ciascuno era raro trovare un momento di condivisione. Ora preghiamo e mangiamo insieme, e questo è un tesoro al quale non vogliamo più rinunciare: nessun prete deve sentirsi solo». Al sacerdote «è indispensabile il contatto con la gente, in questa lontananza il nostro ministero è menomato: mi mancano le persone, il saluto, il sorriso, il dialogo diretto. E’ un momento molto difficile per un prete». Emergono però «i veri rapporti, siamo al centro di attenzioni e cure che commuovono. E se per due mesi la parrocchia non ha entrate, una mano la troviamo sempre».

E’ l’essenziale che viene alla luce, e l’essenziale per don Roberto «è il rapporto con il Signore: è la stessa sofferenza della gente che esige da me che io sia tutto di Dio. Nessuno qui muore di fame, tutti però hanno bisogno di sentirsi radicati in Cristo e nella Provvidenza. Un po’ temo l’euforia del “giorno dopo”, quando vorremo fare tutto quello che ci è stato negato per settimane, dimenticando cos’abbiamo imparato». Cosa, don Roberto? «Che solo la fede conta». In fondo, è sempre questa la lezione di un deserto attraversato.

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