sabato 3 ottobre 2020
Il segretario di Stato ricorda i 150 anni di presenza dei missionari del Pime nel Paese asiatico. «L’esigenza di un Accordo fu chiaro sin dal 1951, ma il tentativo non andò in porto»
Parolin: tra Santa Sede e Cina dialogo che parte da molto lontano

Fotogramma

COMMENTA E CONDIVIDI

«Oggi, in Cina, pur con tutti i suoi problemi e le sue difficoltà, la Chiesa cattolica c’è. Malgrado tanti travagli e tanti limiti, nella sostanza più profonda, la sfida è stata superata. Dopo la partenza degli ultimi missionari nel 1954 non è nata in Cina una Chiesa del silenzio. Non è infatti una Chiesa del silenzio quella che, tra tanti ostacoli, continua ad annunciare il Vangelo. Negli ultimi settant’anni, molte battaglie difficili sono state perse e, talvolta, sono state perse anche battaglie che si sarebbero potute vincere se ci fosse stata un po’ più di buona volontà. Ma è stata vinta la battaglia più importante:

fidem servare

».

Così il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, al convegno organizzato a Milano sul tema «Un’altra Cina. Tempo di crisi, tempo di cambiamento» che celebra i 150 anni di presenza dei missionari del Pontificio istituto missioni estere (Pime) in Cina.

Ed è un puntuale excursus storico quello del segretario di Stato per comprendere la presenza missionaria in Cina tra passato e presente e anche il cammino del dialogo fino ad oggi tra Santa Sede e Cina che ha avuto una tappa importante con la lettera apostolica Maximum Illud di Benedetto XV, pensata specificamente per la situazione cinese. «Questa lettera – ha affermato Parolin rivolgendosi ai missionari del Pime – sollecitò tutto il mondo missionario ad un ripensamento profondo che, per quanto riguarda la Cina, trovò un interprete coraggioso in Celso Costantini, primo delegato apostolico in questo Paese che realizzò nel 1924 a Shanghai quel Sinodo cinese auspicato dai missionari del Pime già a fine Ottocento. Furono infatti proprio due missionari del Pime, anticipando gli orientamenti della Maximum a proporre di mandare un "legato pontificio residente" nella capitale per stabilire rapporti diplomatici col governo cinese. E tra le questioni sollevate da Costantini «c’erano – ha spiegato Parolin – l’“occidentalismo” dei missionari, che comprendeva anche i legami con le potenze europee; l’azione di “snazionalizzare” dei cattolici locali; le carenze nella formazione e nella promozione del clero autoctono; la scarsa penetrazione nella società locale e la scarsa conoscenza della sua cultura da parte dei missionari».
Sarebbe stato opportuno, ha detto ancora il segretario di Stato «fare come gli apostoli: non impiantare se stessi nelle diverse situazioni, ma fondare la Chiesa locale. Era un programma coraggioso e innovativo, su quella linea che da Benedetto XV porta a papa Francesco, rivolta più al futuro che al presente, più alla Chiesa che deve crescere in Cina che ai contenziosi ecclesiastici di ieri e di oggi, più all’annuncio del Vangelo in questo grande Paese che alle regole o ai metodi ereditati dal passato».


Eminenza, quando nasce dunque l’esigenza di un dialogo tra la Chiesa e le autorità cinesi?
Sin dall’inizio della Repubblica popolare cinese. Il 17 gennaio 1951 le autorità invitarono alcuni vescovi e sacerdoti cattolici ad un incontro cui partecipò anche il primo ministro e ministro degli Esteri Zhou Enlai. Questi assicurò che i cattolici avrebbero potuto continuare a seguire l’autorità religiosa del Papa ma dovevano assicurare piena lealtà patriottica nei confronti del loro Paese. Iniziò allora il tentativo di stendere un documento contenente questi due principi, cui partecipò ma anche il segretario dell’internunzio Antonio Riberi: quest’ultimo lo inviò infatti a Pechino proprio perché partecipasse a tale tentativo. Ciò mostra che fin dal tempo di Pio XII, la Santa Sede avvertì l’esigenza del dialogo, anche se le circostanze di allora lo rendevano molto difficile.

Di fatto si è dovuto aspettare molti anni per poter riprendere la strada del dialogo…

Ricordo in particolare il viaggio del cardinale Echegaray nel 1980, quando la Cina aveva appena cominciato ad uscire dalla dolorosa esperienza della Rivoluzione culturale. Tutti i Pontefici da Paolo VI a Francesco, infatti, hanno cercato quello che Benedetto XVI ha indicato come il superamento di una «pesante situazione di malintesi e di incomprensione». Citando il suo predecessore Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ha scritto nel 2007: «Non è un mistero per nessuno che la Santa Sede, a nome dell’intera Chiesa cattolica e, credo, a vantaggio di tutta l’umanità, auspica l’apertura di uno spazio di dialogo con le Autorità della Repubblica Popolare Cinese, in cui si possa lavorare insieme per il bene del popolo cinese e la pace nel mondo». E proprio in quegli anni, come ha scritto il cardinale Giovanni Battista Re pochi mesi fa, «Papa Benedetto XVI approvò il progetto di accordo sulla nomina dei vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare».

Su questo Accordo però sono sorti diversi malin
tesi…
Sì, molti di questi nascono dall’attribuzione all’Accordo Provvisorio di obiettivi che non ha. Oppure dalla riconduzione all’Accordo di eventi riguardanti la vita della Chiesa cattolica in Cina che sono ad esso estranei. O ancora a collegamenti con questioni politiche che nulla hanno a che fare con questo Accordo. Ricordo ancora una volta - e su questo punto la Santa Sede non ha mai lasciato spazio a equivoci o confusioni - che l’Accordo del 22 settembre 2018 concerne esclusivamente la nomina dei vescovi.

Perché la questione della nomina dei vescovi riveste una particolare importanza?
La piena comunione di tutti i vescovi cinesi con il Papa è stata definitivamente raggiunta nel settembre 2018 e nel messaggio scritto a commento dell’Accordo, Francesco ne ha sottolineato l’importanza: le nomine episcopali, oggetto di tale Accordo, sono fondamentali per «sostenere e promuovere l’annuncio del Vangelo in Cina e ricostituire la piena e visibile unità nella Chiesa». È il problema che più ha fatto soffrire la Chiesa cattolica in Cina negli ultimi sessant’anni. E oggi, per la prima volta, dopo tanti decenni, tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma.

Ma l’Accordo in sostanza costituisce per ora solo un punto di partenza…
Ero e sono consapevole che l’Accordo provvisorio tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese del 22 settembre 2018 costituisce solo un punto di partenza e che il cammino per una piena normalizzazione sarà ancora lungo. Due anni sono certo un periodo molto breve per valutare i risultati di un accordo. Alle difficoltà di iniziare un processo tanto nuovo si sono aggiunte quelle create dal Covid-19. Alcuni risultati ci sono stati ma perché il dialogo possa dare frutti più consistenti è necessario continuarlo. Da parte della Santa Sede, perciò, c’è la volontà che l’Accordo sia prolungato, ad experimentum come è stato finora, in modo da verificarne l’utilità.

In questi due anni che cosa c’è stato di positivo?

Ho notato segni di avvicinamento tra i cattolici cinesi che su tante questioni sono rimasti a lungo divisi. È questo un segno importante perché all’intera comunità cattolica in Cina il Papa ha affidato in modo particolare l’impegno di vivere un autentico spirito di riconciliazione tra fratelli, ponendo dei gesti concreti che aiutino a superare le incomprensioni del passato, anche del passato recente. È in questo modo che i fedeli in Cina possono testimoniare la propria fede e aprirsi anche al dialogo tra tutti i popoli e alla promozione della pace.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI