domenica 22 marzo 2020
Napolioni racconta nelle pagine diocesane di Cremona il ricovero e l'assistenza: nell'isolamento gli occhi, la voce e i gesti di medici e infermieri hanno rinnovato l'alfabeto della vita
Il vescovo Antonio Napolioni

Il vescovo Antonio Napolioni - Diocesi di Cremona

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Pubblichiamo qui seguiti l'articolo che mons. Antonio Napolioni, vescovo di Cremona, ha scritto per le pagine diocesane. Si tratta di un suo racconto dell'esperienza del ricovero nell'Unità Operativa di Pneumologia dell'Ospedale di Cremona dove è stato ricoverato per 10 giorni per Covid-19. Ora il vescovo è stato dimesso ed è a casa a completare la convalescenza.

L’esperienza del contagio e della cura che mi è stato dato di condividere, mi impone oggi di far emergere qualche riflessione, di cui essere testimone per i fratelli. Ciò non avviene senza dolore e commozione, ma credo che sia doveroso e fruttuoso.

Nei dieci giorni di ricovero in Ospedale dovrei dire che “non ho visto un volto”. Protetti da camici e guanti, mascherine e schermi, medici e infermieri hanno circondato ognuno dei malati che sempre più affollavano il reparto. Tanti di loro, secondo gli impegnativi turni di servizio, intorno al volto, al corpo, alla fragilità di ciascuno di noi. Tanti, ma non come numeri: ciascuno con la sua identità e storia, con la sua forza e fragilità, col suo stile, con le sue domande e motivazioni.

Il ricordo dei loro occhi, soprattutto dei tanti giovani sanitari chiamati a cimentarsi con una sfida così adulta, è fonte di consolazione e motivo di gratitudine. Occhi attenti, premurosi, belli della bellezza dell’amore. Gli occhi del nostro futuro, che dobbiamo fissare per cogliervi attese e potenzialità, per dare stima, fare spazio, continuare a sognare.

E poi le loro voci, testimonianza di provenienze spesso lontane (anche da altri Paesi del mondo), talvolta desiderose di un seppur breve dialogo, senza timore di chiedere la preghiera dell’uomo di Dio, per sopportare un peso che sentivano insostenibile. Voci di gioia anche solo nel poter dire all’ammalato: “oggi non c’è febbre”, sentendola come una piccola conquista per tutta la squadra. Voci che hanno reso possibile una familiarità umana, un dialogo concreto, utile a farmi sentire accompagnato, guidato, accudito.

Da queste due finestre dell’anima, lo sguardo e la parola, si passa concretamente ad un’infinità di gesti, da quelli più esigenti della terapia, a quelli dell’igiene e della cura dell’ambiente. Mi colpiva lo sforzo di ciascuno nel cercare di fare più bene possibile, anche quando un certo dolore era inevitabile. I gesti fatti bene, come etica professionale e gusto della vita, sono la vera medicina.

Una dimensione drammatica di questa epidemia è costituita certamente dall’isolamento cui ciascuno è stato costretto. Penso in particolare ai malati più gravi, agli anziani, a chi non ce l’ha fatta, e non ha neppure potuto avere accanto gli occhi, le voci, i gesti dei figli e dei nipoti, delle persone più care. Lo strazio di uno strappo, che neppure abbiamo potuto adeguatamente celebrare nella fede. Un debito di umanizzazione che dobbiamo far nostro per il futuro.

Mi consola, però, pensare che in quelle ultime ore, i nostri fratelli e sorelle abbiano incrociato quegli occhi, quelle voci e quei gesti che la comunità ha potuto offrire loro. Non di semplici addetti ai lavori, ma di membra di un’unica famiglia allargata, addirittura di un unico corpo. Per i credenti, siamo al culmine dell’Incarnazione e del Mistero pasquale, di cui la Pietà di Michelangelo può essere eloquente icona: tutti noi siamo Gesù morto, tutti noi siamo la Madre che lo tiene in grembo.

Dovremo riflettere molto su questa prova e, se non cederemo al cinismo, potremo ripartire – nei sentieri della vita familiare, sociale ed ecclesiale – da quegli occhi, voci, gesti. Dall’alfabeto della vita e della fede, che forse stavamo smarrendo nel delirante rumore di un mondo troppo in corsa.

+Antonio Napolioni, vescovo di Cremona

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