mercoledì 1 dicembre 2021
Il Messaggio Cei per la Giornata di approfondimento e dialogo del 17 gennaio chiama le religioni a uscire da depressione e autoreferenzialità per impegnarsi a costruire la società e essere generative
La visita di papa Francesco alla sinagoga di Roma. Nella foto il rabbino capo Riccardo di Segni, 17 gennaio 2016

La visita di papa Francesco alla sinagoga di Roma. Nella foto il rabbino capo Riccardo di Segni, 17 gennaio 2016 - Fotogramma

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Pubblichiamo il Messaggio per la 33ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che sarà celebrata il prossimo 17 gennaio. Il titolo, tratto dal Libro del profeta Geremia è: “Realizzerò la mia buona promessa” (Ger 29, 10). Il testo, firmato dalla Commissione episcopale Cei per l’ecumenismo e il dialogo, è stato approvato dal Consiglio episcopale permanente.

La Giornata del 17 gennaio per i cristiani è un’importante occasione per curare il rispetto, il dialogo e la conoscenza della tradizione ebraica. Purtroppo in questo tempo assistiamo a deprecabili manifestazioni di cancellazione della memoria e di odio contro gli ebrei. La Giornata è una significativa opportunità per sottolineare il vincolo particolare che lega Chiesa e Israele (Na 4) e per guardare alle comunità ebraiche attuali con la certezza che «Dio continua ad operare nel popolo dell’Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che scaturiscono dal suo incontro con la Parola divina» (Eg 249).

Negli ultimi anni i temi del dialogo sono stati dedicati alle Dieci parole e alle Meghilloth; ora, alla luce della pandemia e delle sue conseguenze, desideriamo intraprendere un cammino sulla Profezia. Proponiamo la lettura di un passo del profeta Geremia che ci pare particolarmente in sintonia con il tempo complesso che stiamo attraversando. Si tratta de “La lettera agli esiliati” (Ger 29,1-23).

In questa lettera Geremia reinterpreta l’esilio vissuto dal popolo quasi si trattasse di un “nuovo esodo”: Israele si trova in mezzo ai pagani, ben distante dalla “terra della promessa”, senza il tempio, eppure proprio in quella situazione drammatica ritrova il senso autentico della propria vocazione. Moltiplicarsi in quella terra, “mettere radici”, favorire la pace e la prosperità di tutti, ripartire dalle cose fondamentali e semplici della vita (lavoro, relazioni, casa, famiglia…): ecco la chiamata che Dio affida ai suoi. Alle indicazioni su come vivere il tempo dell’esilio è legata una promessa per il futuro: chi sceglie di conservare tutto e resta attaccato a un passato glorioso, rischia di perdere anche se stesso, mentre chi è disponibile ad abbandonare ogni falsa sicurezza riavrà i suoi giorni. A nulla serve l’illusione di poter riprendere in fretta le consuetudini amate, di fare in modo che tutto «sia come prima».

La comunità in esilio aveva una duplice tentazione: perdere ogni speranza e costruire una comunità chiusa, distaccata e ripiegata su se stessa. Nella pandemia, come credenti, abbiamo avuto le stesse tentazioni: perdere la speranza e chiuderci in comunità sempre più autoreferenziali. Le stesse tentazioni le proviamo di fronte alla situazione di “esculturazione” del fenomeno religioso (o, per lo meno, del cristianesimo): rischiamo di perdere la speranza e di creare comunità sempre più chiuse in se stesse. Geremia ci invita a «stare positivamente dentro la realtà», a mettere radici e a starci in modo «generativo». Ecco la sfida per le religioni: uscire dal rischio della «depressione» e dell’autoreferenzialità difensiva per essere generative, capaci di lavorare per la costruzione della società e generare speranza. Come cristiani e come ebrei possiamo aiutarci ad affrontare tale sfida, perché la Promessa resta costante nella storia. Il Signore lavora per «rigenerare», per «far ricominciare». Egli è fedele e non abbandona il suo popolo. Ogni crisi è una buona occasione, un tempo favorevole da «non sprecare»: essere seminatori di speranza. Gli esiliati si danno da fare per il paese, lavorano, investono energie per la terra, persino pregano il Signore per il benessere di quel paese. Questo ci ricorda che «colui che viene da fuori», l’ospite e lo straniero, è una risorsa per il paese; che lo straniero è una benedizione e che l’ospitalità, così centrale nelle tradizioni ebraica e cristiana, può essere lo "stile" con cui oggi i credenti stanno nella storia e animano la società.

La lettera di Geremia è dunque un testo che, letto a due voci in questa Giornata, può aiutarci a collocare la nostra esperienza di fede nell’odierna stagione di “cambiamento d’epoca”. I temi della “ricostruzione”, della speranza, del dialogo con le realtà che ci circondano, il confronto con l’altro (anche con lo “straniero”), possono fornire spunti importanti rispetto al modo di abitare la terra. Un’ottima occasione di confronto e di dialogo. A noi cristiani cattolici possono insegnare un vero stile sinodale.
Ci rivolgiamo infine a voi, comunità ebraiche italiane, ringraziandovi per quanto rappresentate per noi, e chiedendovi di sentirvi partecipi di questo itinerario, nel quale – come ha affermato papa Francesco – possiamo «aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola, come pure condividere molte convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la giustizia e lo sviluppo dei popoli» (Eg 249).

La Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo

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