domenica 13 dicembre 2020
L’ex vaticanista in questi mesi sta raccogliendo sul suo blog storie di malati, medici e testimoni. Un «racconto» che ha vinto il premio Ucsi. E ora vive in prima persona la positività
L'ex vaticanista Luigi Accattoli

L'ex vaticanista Luigi Accattoli

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Luigi Accattoli, l’ex vaticanista che ha lavorato prima a La Repubblica e poi al Corriere della Sera, storico collaboratore de Il Regno, è da due settimane in ospedale a Roma per polmonite da Covid-19. Il contagio gli è stato diagnosticato il 19 novembre, esattamente a un mese di distanza dall’assegnazione del premio Ucsi “Giornalismo e società” incentrato sulla pandemia che gli verrà assegnato a Verona. La premiazione avverrà da remoto: Accattoli spera di riuscire a partecipare dall’ospedale. In questa intervista realizzata a distanza ripercorriamo il lavoro di inchiesta che ha realizzato in questi mesi sulle storie di pandemia che gli sono valse il riconoscimento.

Accattoli, che cosa ti colpisce nella motivazione di questo premio?

La motivazione fa riferimento all’attività svolta negli ultimi decenni di narrazione di «fatti di Vangelo», cioè delle tante esperienze di italiani dei nostri giorni che io vedo ispirate alle beatitudini e all’esempio di Gesù. Ho raccolto queste storie in alcuni libri e negli ultimi mesi sul blog ho indagato nella stessa ottica le «storie di pandemia».

Quale segnale esce da queste storie?

Esse testimoniano come dal male possa sempre rifiorire il bene. In esse è segnalato il coraggio di donne e uomini che rischiano la vita per aiutare il prossimo e la generosità che trasforma il dolore in amore. Ma anche la fede ai tempi del Covid.

Negli ultimi giorni queste storie di pandemia sono diventate un diario in prima persona, prima da casa e poi dall’ospedale.

La polmonite mi ha portato a uno stato di debilitazione e dipendenza dalla respirazione assistita che mi ha messo nelle condizioni si capire meglio ciò che si prova con il coronavirus.

Quante storie hai raccolto finora nel tuo blog?

Sessanta, che si possono leggere nel capitolo 22 della pagina «Cerco fatti di Vangelo»: http://www.luigiaccattoli.it/blog/cerco-fattidi- vangelo/22-storie-di-pandemia/. Poi a sera nel blog, ogni giorno, do aggiornamenti sulla mia esperienza ospedaliera.

Nelle tue righe si sente forte il timbro della sofferenza. C’è qualcosa che è riuscito a sorprenderti positivamente?

Una sorpresa grande, rispetto a quanto avevo letto di altri, è stata l’opportunità di avere la Comunione quasi tutti i giorni nel reparto pneumo-Covid 2 dell’ospedale San Giovanni di Roma.

Mi racconti un segno cristiano di questi giorni che ci appaiono “cattivi”?

Nella mia stanza siamo in quattro: una domenica, con il mio computer stavamo seguendo l’Angelus del Papa. A un certo punto entrano i medici per la visita e allora mettiamo il video in pausa. Quando, poco dopo, se ne vanno, il capo del gruppo dice: «Abbiamo visto che qui pregate. Pregate anche per noi».

Torniamo alle storie: che cosa ti spinge a raccoglierle?

Trasmettono coraggio e sono il dono di questa stagione tribolata.

Quale storia ti ha colpito di più?

Le tante persone che prima di morire hanno lasciato un’ultima parola affidata a una chat o a un’infermiera. Vengono poi i tanti guariti che hanno conosciuto il morso del Covid e ne hanno dato un racconto coinvolgente. Infine le scelte di volontariato compiute da uomini e donne impegnate nel lavoro ospedaliero, nel soccorso a domicilio, in tante pieghe dell’emergenza.

Queste tracce di umanità, come le definisci, che cosa ti fanno pensare?

Innanzitutto al modo di vivere la morte. I nostri morti sono tanti: sono arrivati a oltre 60mila. Quasi tutti sono scomparsi in solitudine. Senza neanche poter lasciare una parola alle famiglie. Qualche volta solo ai medici e agli assistenti. C’è poi chi è guarito e poi è ricaduto ed è morto ma nella fase della guarigione ha raccontato quello che stava passando.

Hai qualche esempio?

Don Corrado Forest di Vittorio Veneto, 80 anni, confida al vescovo che gli telefona: «Non è male che anche qualche prete prenda questo tipo di malattia per condividere quello che vivono molte altre persone». Un altro prete, Orlando Bartolucci di Pesaro, poi deceduto, da me interpellato in un momento che era parso di guarigione, aveva avuto parole simili di accettazione della malattia: «Anche se tutto è pesante, doloroso, non so per quale motivo, spiritualmente mi sento “contento” di aver fatto questa esperienza. È l’aver in certo qual modo condiviso una storia con la tua gente».

Le storie dei medici morti per Covid credo meritino un capitolo a parte.

Sì e le metterei insieme a quelle degli infermieri, degli operatori ospedalieri, dei volontari e infine dei sacerdoti che hanno dato la vita per accompagnare malati e morenti. A fine ottobre i soli preti diocesani scomparsi – secondo Avvenire – erano 130, aggiungendo i religiosi ci si avvicina o forse si supera il numero dei medici. Con una delle più belle intenzioni proposte nelle Messe a Santa Marta, quella del 3 maggio, domenica del Buon Pastore, Francesco ci invitò a contemplare congiuntamente «l’esempio di questi pastori preti e pastori medici».

Tra i guariti che cosa hai trovato?

Ho raccolto narrazioni vivissime di cinque sacerdoti, di una decina di laici, di tre vescovi: Antonio Napolioni (Cremona), Derio Olivero (Pinerolo), Calogero Peri (Caltagirone). Il vescovo Napolioni così parla in una lettera post mortem a un suo prete che se ne era andato poco dopo che lui, vescovo, era uscito dall’ospedale: «Scrivo per dirti quello che l’isolamento ci impedisce di dire ai nostri cari, in questa disumana maniera di morire». «Disumana»: detto da un vescovo.

Ci sono casi singolari di volontariato?

Tanti per impulso di solidarietà tornano a fare il medico o l’infermiere, pur essendo ormai in pensione, o avendo lasciato da tempo quel lavoro: chi era diventato scrittore, chi vignaiolo, chi si era fatto prete, o frate o suora.

Le chiami tutte «fatti di Vangelo»?

So bene che non tutti agiscono in risposta alla vocazione cristiana, ma più ampiamente alla vocazione d’uomo. C’è un insegnamento nel fatto che in profondo le due vocazioni s’incontrino. È anche cercando quell’insegnamento che accanto ai semi seminati dall’una conviene onorare quelli dell’altra.

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