lunedì 23 ottobre 2023
A Neve Shalom Wahat al-Salam, tra Gerusalemme e Tel Aviv, vivono 80 famiglie equamente distribuite tra israeliani e palestinesi. L'aggravarsi della crisi mediorientale non ha fermato la profezia
Alcune partecipanti a un incontro interreligioso

Alcune partecipanti a un incontro interreligioso - Dal sito internet di Neve Shalom Wahat al-Salam

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Inutile negarlo, preoccupazione e paura sono aumentate. Ma l’allerta che cresce non basta a fermare il sogno diventato profezia di Neve Shalom Wahat al-Salam. Malgrado l’orrore, a dispetto delle notizie di bombe, missili e vittime innocenti, il villaggio posto tra Gerusalemme e Tel Aviv-Jaffa prova a continuare a vivere la sua missione, testimoniata sin dal nome, che tanto in arabo che in ebraico la definisce “oasi di pace”. «Sentiamo gli allarmi che suonano da entrambe le parti, avvertiamo i bombardamenti – spiega Samah Salaime direttrice dell’Ufficio comunicazione e sviluppo del villaggio -. È tutto piuttosto spaventoso, per questo abbiamo potenziato la vigilanza con turni affidati anche ai volontari».
Nato dal coraggio e dalla passione del domenicano padre Bruno Hussar il villaggio fu fondato nel 1972 su un terreno di 100 acri preso in affitto dal monastero di Latrun. Secondo l’idea originaria vi abita un numero uguale di famiglie arabe e israeliane (la prima vi si insediò nel 1977), che condividono ogni decisione e scelta del vivere comune. Non si tratta però di un luogo asettico, fuori dal mondo e dalla storia, ma pienamente inserito nel suo tempo dove la guerra giocoforza “entra”, solo che arabi ed ebrei provano a farsene carico insieme. Essenziale in questo senso il ruolo affidato alla “scuola per la pace” frequentata anche da ragazzi dei villaggi vicini.


Studentesse impegnate nella Scuola per la pace

Studentesse impegnate nella Scuola per la pace - Dal sito internet di Neve Shalom Wahat al-Salam



«Attualmente – aggiunge Samah Salaime - nel villaggio vivono 80 famiglie, circa 300 persone e tra loro c’è chi ha perso o cui è stato rapito un parente o una persona cara. Davvero ci troviamo in uno dei momenti più tristi della nostra storia. Difficile soprattutto per i palestinesi che abitano in Israele, per chi vive insieme e per quanti sono impegnati nelle istituzioni che promuovono la pace. Io stessa ho un’amica d Be’eri Kibbutz che è stata rapita».
La brutalità quasi disumana di questi giorni, se da una parte sembra allentare le ragioni del vivere insieme, dall’altra ne rafforza la necessità. «L’unica risposta è la pace – continua Salaime – che si costruisce sulla democrazia e l’uguaglianza, combattendo qualsiasi tipo di suprematismo e impegnandosi a tutelare la dignità di ciascuno. Tra il fiume e il mare ci sono 6milioni di israeliani e 6 milioni di palestinesi. Tutti hanno il diritto di vivere in pace. Non ci può essere democrazia da una parte e un popolo assediato e occupato dall’altro. L’unica equazione cui ci ispiriamo è il rispetto di ogni persona, garantendo uguaglianza e cercando la giustizia».
Naturalmente l’escalation della crisi ha modificato la quotidianità del villaggio. Per esempio, le scuole sono al momento chiuse ma vengono organizzati corsi online tra cui “lezioni di consapevolezza” destinate soprattutto a bambini e famiglie che necessitano di più incoraggiamento e assistenza. Al lavoro senza sosta ma in un modo diverso anche la Scuola per la pace. «Abbiamo dovuto ripensare tutti i nostri piani e gruppi» - spiega il direttore Roi Silberberg che con il suo staff si è rivolto alla rete degli ex allievi offrendo sostegno a chi ne ha bisogno e chiedendone a favore dei più bisognosi di ascolto. In proposito, domenica 15 ottobre si è svolto un corso (già programmato) di dialogo online tra ebrei israeliani e palestinesi che vivono in Europa, con partecipanti provenienti da Paesi Bassi, Gran Bretagna, Germania, Svizzera e Spagna. La speranza che ha trovato radice a Neve Shalom Wahat al-Salam, continua a crescere.
«L’alternativa alla pace – osserva Salaime - è continuare a combattere, ciò che vogliono gli estremisti da entrambe le parti». Al contrario invece bisogna fermare i combattimenti «e andare alla negoziazione, ma questo richiede leadership coraggiose che sfortunatamente oggi non vedo». Occorre che ciascuna parte rinunci a qualcosa. «Per arrivare a una pace stabile, conclude Salaime, «serve un accordo che garantisca al popolo palestinese una sorta di indipendenza. Israele è una paese democratico ma dalla democrazia spaccata che a Gaza tiene sotto oppressione due milioni di persone. Il prezzo più alto, come sempre lo pagano i poveri civili, oppressi dal regime di Hamas dall’interno e intrappolati dall’occupazione israeliana. Una condizione legata anche alla codardia delle nostre leadership». Preoccupazione e tristezza non mancano, come si capisce. Tuttavia, anche in questi momenti bui è più forte il richiamo al sogno originario su cui si fonda il villaggio. Come testimonia il messaggio pubblicato il giorno dopo il vile attacco di Hamas a Israele. «Soprattutto ora - si legge - quando la tempesta intorno a noi sta prendendo forza e siamo tutti in uno stato di allarme emotivo, questo è il momento per noi di Wahat al-Salam - Neve Shalom e per tutti coloro che credono in una società condivisa, di continuare a essere una bussola, di accendere le nostre torce nell’oscurità che ci circonda e di essere un modello di pace, uguaglianza e giustizia».
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