mercoledì 10 agosto 2022
«Un terzo delle case è già distrutto. Potremmo fare la fine della città martire conquistata dai russi». Ogni settimana il presule rischia la vita per portare gli aiuti a chi è sotto le bombe
Il vescovo Pavlo Honcharuk davanti all’episcopio

Il vescovo Pavlo Honcharuk davanti all’episcopio - Gambassi

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«Eccellenza, non vada... È pericoloso». Se lo sente ripetere spesso il vescovo di Kharkiv- Zaporizhzhia, Pavlo Honcharuk, che non può sfidare ogni volta le bombe per portare in prima persona gli aiuti a chi ha bisogno. «Ma io devo stare accanto alla gente, sia quella che vive qui a Kharkiv, sia quella che abita nei villaggi devastati dalla follia russa, sia quella che sta al fronte e che combatte per noi», risponde l’energico pastore di 48 anni.

E tutte le settimane si mette da solo al volante di un furgoncino («Perché non voglio che altri azzardino come me») e consegna cibo, abiti e persino pannolini alla sua «comunità che soffre e resiste», dice. Ovunque essa sia. «La preghiera e la carità sono le nostre armi», racconta il vescovo di rito latino alla guida da due anni di una Chiesa che abbraccia i territori dell’Est dell’Ucraina dove si registrano i combattimenti più intensi: come le due località che alla diocesi danno il nome oppure Mariupol, la città martire caduta nelle mani di Mosca che è diventata il simbolo della strategia disumana del Cremlino.

«Anche Kharkiv rischia di fare la stessa fine di Mariupol», sostiene Honcharuk. Possibile che una metropoli dove risiedevano in tre milioni prima della guerra possa venire polverizzata e i suoi abitanti essere ridotti allo stremo? «Già un terzo di Kharkiv è distrutta – racconta il presule –. L’obiettivo dei russi è occuparci. Ma ancora non ci sono riusciti. Con i bombardamenti continui vogliono creare il panico. E, oltre a bersagliare le infrastrutture, intendono tagliarci i mezzi di sussistenza. Finché l’intera città non dirà: “Basta, non ce la facciamo più. Ci arrendiamo”».

Sul davanzale di una finestra del palazzo vescovile Honcharuk ha lasciato il frammento di un razzo russo. «È caduto poco distante da qui – riferisce –. Ha reso inagibile un posto di polizia. E gli agenti ci hanno chiesto un tetto. Così li ospitiamo a piano terra». Una piccola caserma dentro l’episcopio. Anche questa è la guerra. Come il palazzo della Curia trasformato in deposito e dispensario dove i cinque seminaristi passano le giornate a smistare derrate alimentari, a preparare la “buste solidali” della spesa, a sistemare i farmaci. Con loro i volontari di Caritas-Spes. «La Chiesa è con il popolo ferito», afferma il vescovo che non ha mai lasciato Kharkiv da quando è iniziata l’invasione.

Ma soffre pensando alle parrocchie che non può raggiungere nelle zone occupate dalle truppe di Mosca. «Anche il Donbass rientra nella diocesi – spiega –. A Lugansk i nostri sacerdoti non mettono piede da quattro anni perché i russi ci impediscono di entrare. E lì la gente continua a domandarsi: che cosa accadrà? Perché non è possibile avere alcun contatto con gli occupanti. Allora dominano la paura e la solitudine».

È un pastore prolife, Honcharuk, ucraino doc, che proviene da una famiglia con tredici fra fratelli e sorelle. «Ci si indigna, e giustamente, per i bambini che perdono la vita nei bombardamenti del Paese. Ma poi si protesta quando il presunto diritto all’aborto viene limitato. Ma che mondo è questo dove viene legalizzata una pratica di morte? E lo dico da vescovo che vede i suoi piccoli uccisi per la bramosia di potere di un dittatore».

Eccellenza, come essere Chiesa sotto le bombe?
Siamo una Chiesa che resta qui e resiste. Siamo una Chiesa che prega anzitutto: prega per la pace; prega per i militari che ci proteggono; prega per i profughi che sono rimasti senza nulla; prega per i benefattori che fanno arrivare gli aiuti in mille modi; prega per la conversione di chi ha voluto questa carneficina. E poi siamo una Chiesa che soccorre in maniera concreta una terra dove i missili cadono senza sosta da febbraio. Fra i nostri parrocchiani ci sono persone rimaste senza lavoro, militari sulla linea del fuoco, medici che fanno miracoli per salvare i troppi feriti.

Lei ha scelto di essere vicino anche a chi è al fronte.
Certamente. Visito i soldati, portando anche i generi necessari a quanti lottano per salvare le nostre vite e la nostra libertà. E con i militari parlo. Hanno bisogno di sfogarsi. E sa che cosa mi chiedono: è lecito uccidere un nemico? E io mi sento di dire loro: difendete la nostra patria da un invasore; è un diritto farlo.

Kharkiv ha urgenza di aiuti. Pensa che l’Occidente potrebbe dimenticarla?
Servono gli aiuti perché la gente ha davvero bisogno. In tanti hanno perso la casa oppure il lavoro. Poi ci sono i rifugiati giunti dalle aree occupate che hanno lasciato quanto avevano. A tutto ciò si aggiungono i lutti familiari: c’è chi ha perso un proprio caro al fronte; chi un parente a causa di un attacco dal cielo. Viviamo una tragedia immane. E una parte del mondo che cosa fa? Resta a guardare. In tal caso significa essere complici del male.

Si può annunciare la speranza in mezzo a un conflitto?
È difficile quando si è perso tutto. Però resta la voglia di vivere. E l’amore di Cristo può riscattare un cuore straziato. Perché il Signore sana, guarisce. E occorre che si instauri la pace di Dio; altrimenti anche la nostra pace umana che implica giustizia e libertà resterà vana.

La guerra alimenta un clima di odio?
Odio e sofferenza non vanno di pari passo. Come credenti siamo tenuti a distinguere fra una campagna di persecuzione e i persecutori. La Scrittura ci insegna che anche il malvagio può cambiare e redimersi.

Che cosa dice Mariupol al mondo?
Esprime ciò che viviamo. E mostra quale sia il disegno russo sull’Ucraina.

Non passa giorno che il Papa non faccia riferimento alla «strage» in Ucraina. E ha ribadito di voler visitare il Paese.
Lo ringraziamo sentitamente per le sue calorose e costanti parole. Percepiamo in ogni momento la sua vicinanza. La visita del Pontefice è molto attesa, ma non penso che porterà i frutti sperati, ossia la fine delle ostilità. Inoltre non possiamo negare che sarà rischiosa. Se venisse come capo di Stato, dialogando solo con le autorità, potrebbe essere fattibile. Se fosse un viaggio pastorale che prevede anche l’incontro con la popolazione, potrebbe rivelarsi pericoloso. Perché Putin non cesserà di lanciare i missili. Il leader russo si considera al pari di Dio e vuole avere potere di vita e di morte.

E la visita del Papa a Mosca?
È un azzardo. Potrebbe essere strumentalizzata dal Cremlino. Infatti sono convinto che Putin mostrerà l’immagine di lui che stringe la mano al Pontefice e dirà: “Il Papa è mio amico”.

Il patriarca di Mosca, Kirill, ha benedetto l’invasione. Ma la maggioranza dei cristiani in Ucraina è legata alla Chiesa ortodossa russa.
Dobbiamo difendere la buona fede di quanti vanno in chiesa e vivono la loro appartenenza ecclesiale in modo genuino. Al contrario, i vertici del patriarcato di Mosca si sono piegati al potere. Di fatto il diavolo ha indossato la talare. E il Cremlino usa la Chiesa per forgiare una mentalità imperialista. Così si uccide la fede. Inoltre nel patriarcato di Mosca vige un clima di terrore. Si rischia anche la vita se si dice la verità, come è accaduto a padre Aleksandr Men’.

Le comunità del patriarcato di Mosca in Ucraina hanno preso le distanze dal patriarcato stesso.
Ho parlato con molti sacerdoti ortodossi ed è una situazione difficile da accettare. È una sorta di compromesso anche per capire come andrà la guerra. Certo, il patriarcato di Mosca aveva proibito ai propri sacerdoti di celebrare i funerali dei soldati ortodossi ucraini uccisi nei combattimenti in Donbass. Un’assurdità.

Sarà lunga la guerra?
Non lo so. Sicuramente il popolo ucraino non vuole essere schiavo di una potenza straniera o diventare carne da macello che un invasore può usare a proprio piacimento. C’è un proverbio secondo cui i russi dicono: nessuno può vivere meglio di noi. La Federazione russa si sente così onnipotente da voler soggiogare chi ragiona con la propria testa. Per questo è un Paese da rievangelizzare.

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