Pasolini: le “visioni” dei giovani per il futuro di tutti
di Redazione
Il frate cappuccino predicatore della Casa pontificia: «Sapersi fare domande autentiche, non accontentarsi di risposte prefabbricate: perché questa inquietudine è un bene anche per gli adulti»

In uno dei tanti momenti di crisi vissuti da Israele, il profeta Gioele riesce a intravedere in Dio il respiro di una promessa sorprendente: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo; diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie, i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (Gl 3,1). Anche la Chiesa, in un tempo non meno segnato da conflitti ostinati e trasformazioni radicali, prova a vivere il Giubileo come un’opportunità per riaccendere la speranza in un futuro in cui pace e giustizia possano finalmente trovare casa.
Mentre i giorni del Giubileo scorrono rapidi, animando Roma con la presenza e il fervore di ogni categoria di persone, la settimana dedicata ai giovani invita chi ha già qualche capello bianco a chiedersi se, dentro di sé, palpita ancora un sogno da condividere. Forse non è un caso che il profeta parli proprio di sogni per gli anziani e di visioni per i giovani: un incontro possibile tra memoria e desiderio, tra esperienza e slancio, tra ciò che è stato e ciò che può ancora accadere. Scrutando con sincerità tra i miei pensieri, mi accorgo che il mio sogno potrebbe essere proprio quello evocato dal profeta: che i giovani, nei giorni in cui celebrano il loro Giubileo, possano avere delle visioni capaci di dischiudere ai loro occhi il fascino e la gravità del tempo che stanno attraversando, così carico di domande e scelte decisive per la loro storia. Nel linguaggio biblico, accedere a una visione non significa prevedere gli eventi futuri, né entrare in possesso di informazioni riservate. Significa piuttosto assistere, con stupore e responsabilità, alla rivelazione di un significato. Una visione è sempre un dono: non uno schema che imprigiona la storia, né una risposta che chiude il senso, ma un’apertura che permette di ascoltare quali domande la realtà ci sta rivolgendo.

Quando si è giovani, è più facile percepire l’urgenza delle domande autentiche, quelle che non si accontentano delle risposte prefabbricate. Ed essere disposti a farle vibrare con coraggio nel cuore della propria esistenza, come un appello a cui non si può e non si vuole rinunciare. È la grazia della giovinezza: quel tempo benedetto in cui l’inquietudine non è vissuta come un problema da risolvere, ma come il luogo speciale in cui far maturare il rischio della propria libertà, fino a diventare, a qualsiasi costo, sé stessi. Una giovinezza che sa restare fedele alla propria inquietudine diventa feconda anche per chi giovane non lo è più.
Il compito degli adulti – e in modo particolare di coloro che hanno ricevuto la chiamata a essere pastori del gregge di Dio – è quello di offrire alle visioni dei giovani uno spazio autentico di ascolto e di riconoscimento, senza ridurle a un tumulto da placare o a una stranezza da normalizzare. Si tratta di un ascolto che richiede umiltà e silenzio, capacità di meraviglia e disponibilità a lasciarsi provocare. Che ci piaccia o no, il futuro della Chiesa e del mondo potrebbe assomigliare molto di più allo sguardo inquieto dei giovani che alla memoria rassicurante degli anziani. Soprattutto quel futuro che dipenderà dall’assumere coraggiosamente la delicata missione affidata dal Risorto: portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra, incarnandone le esigenze nelle pieghe e nella complessità di ogni esistenza umana. Nessuno escluso, nessun ambito risparmiato.
Come faranno i giovani a dischiudere questo orizzonte di speranza, così urgente e necessario perché la Chiesa continui a essere un sacramento di salvezza per il mondo intero? Continuando a vedere in ciò che fanno il simbolo di una realtà più grande, verso cui tutte le cose tendono. Come in questi giorni giubilari, nei quali ripetono gesti organizzati e prescritti, provando a riconoscere in essi non solo un rito da assolvere, ma anche un segno da interpretare.

Mi auguro che i giovani possano accorgersi che i riti del Giubileo sono soprattutto dei segni, che indicano una direzione e suggeriscono una strada da percorrere. Camminare insieme, ad esempio, non è soltanto condividere un itinerario, ma decidere che il futuro non può essere costruito da soli. È il segno di una conversione culturale e spirituale che rifiuta l’individualismo e sceglie la comunione come stile di vita. Camminare insieme significa accettare i ritmi degli altri, accogliere i passi più lenti e valorizzare la diversità come risorsa.
Attraversare la Porta Santa, inoltre, rappresenta molto più di un gesto simbolico: è un atto di fiducia, la dichiarazione pubblica di voler accogliere fino in fondo il proprio battesimo. Significa scegliere il Vangelo come criterio di verità e via di felicità, anche quando appare scomodo o controcorrente. È riconoscere che la propria vita ha un’origine sacra e un destino eterno, e che proprio per questo merita di essere vissuta con responsabilità e coraggio.
Infine, domandare a Dio il dono dell’indulgenza non equivale a una scorciatoia spirituale ma a un esercizio di verità e libertà. Significa rinunciare alla maschera della perfezione e accettare di essere conosciuti e amati nella propria verità. È la dichiarazione di un’identità nuova: quella di figli e figlie della misericordia, capaci di riconciliarsi con sé stessi, con gli altri e con la propria storia. Solo chi accetta di essere perdonato può diventare costruttore di pace.
Ecco, se i giovani sapranno vivere questi giorni non solo come un pellegrinaggio, ma come una visione, allora i sogni degli anziani non resteranno delusi. La promessa del profeta continuerà a realizzarsi e il Giubileo sarà ciò che deve essere: un tempo di grazia in cui lo Spirito torna a soffiare, per ridare forma alla Chiesa e, speriamo, un po’ di speranza anche al mondo.
*Predicatore della Casa pontificia
*Predicatore della Casa pontificia
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