mercoledì 15 luglio 2020
«Gestire la fase post emergenza ha imposto a tutti di ripensare le azioni tradizionali. Il dialogo con le istituzioni locali si è fatto più stretto e costruttivo Una chance per crescere»
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Le pagine di Avvenire delle ultime settimane hanno raccontato diffusamente l’esperienza di questa estate così strana negli oratori italiani. Lo scorso 23 aprile uno dei membri del Comitato tecnico scientifico del Governo disse: «Scordiamoci (la prossima estate, ndr.) i campi estivi e gli oratori. Ho diverse perplessità su come si possa garantire il distanziamento dei bambini». Suonò come una sentenza inappellabile, anche se la ministra Bonetti il giorno dopo replicò che, invece, se ne sarebbe parlato eccome. Non è stato meno difficile il dibattito interno alla Chiesa: a molti è parsa un’imprudenza prendersi la responsabilità di (ri)aprire gli spazi dell’oratorio e della parrocchia per offrire a ragazzi e famiglie l’esperienza della condivisione del tempo estivo. Va detto subito con chiarezza che non si vuole giudicare chi non se l’è sentita di affrontare questa situazione, perché c’erano ragioni forti per non farlo. Ma nello stesso tempo bisogna anche riconoscere che il problema è stato solo rimandato: settembre è ormai vicino e la ripresa delle attività del catechismo pone esattamente le stesse questioni.

I ragazzi e le famiglie, mai da soli
Si era detto che l’estate dei ragazzi aveva in sé una preoccupazione per la loro vita, bloccata da mesi nelle relazioni e negli incontri. Il fermo della scuola aveva interrotto quella socialità che per la vita dei più giovani è una necessità anche per la salute mentale. Le famiglie vivono un tempo di 'stordimento': durante la pandemia sono diventate l’unico rifugio e sicuramente hanno riportato i ragazzi a comprendere quanto sia importante la logica del dono. Ma finito il lockdown madri e padri hanno dovuto tornare (e di corsa!) al lavoro. Chi è riuscito a partire ha mandato un grande segnale. Si è inserito nella tradizione educativa della Chiesa che non ha mai avuto paura di affrontare emergenze e necessità. La storia di don Bosco e dei santi della carità è il segno più evidente che i cristiani non hanno mai disgiunto la cura delle persone dall’annuncio del Vangelo. Si sente ancora qualcuno che parla di 'pre-evangelizzazione' o che intende la prossimità come una sorta di complemento d’arredo. In realtà proprio nella logica della prossimità e del dono si gioca l’annuncio; la carità è il cuore della fede. Dirlo in questo tempo e con la creatività che si è riusciti a esprimere è stato un segnale forte.

Un nuovo rapporto con il territorio
La pandemia ha messo in evidenza ciò che si faticava a riconoscere. La condizione fondamentale per poter fare qualcosa, ha previsto un rispetto rigoroso di norme e di linee guida. Al netto delle norme strettamente sanitarie, le altre regole in realtà non erano una novità: penso soprattutto al dovere di confrontarsi con le autorità locali in vista dell’apertura di servizi educativi o di avere personale adeguato. Sono regole che c’erano anche prima, anche se a volte venivano disattese. Qualcuno ha visto in questo l’ingerenza dello Stato che vuole mettere il naso nelle azioni pastorali. In realtà il confronto con le istituzioni del territorio fa bene anche a chi si occupa di pastorale. In questa strana estate è diventato chiaro che parlando di proposte pastorali, l’elaborazione di senso che viene dall’ascolto del territorio, delle istituzioni, delle culture diventa fondamentale. A un sindaco non interessano i contenuti di una proposta educativa: il suo compito (come responsabile della salute pubblica) è quello di verificare se esistano le condizioni perché si possa aprire. Questo costringe gli oratori a un lavoro di progettazione e di formazione più specifico. È una fatica che insegna a non ritenere le cose 'buone' soltanto perché le facciamo noi. Il confronto è faticoso, talvolta allunga i tempi, chiede di trovare soluzioni nuove, ma il risultato è un’alleanza più forte con le realtà di un territorio, una cura più specifica di ciò che si fa. È un po’ più faticoso, certo, ma fa crescere anche la realtà ecclesiale. Potrei raccontare più di una storia di persone che si erano completamente arrese subito dopo la lettura delle linee- guida del Governo, ma con un po’ di pazienza hanno fatto passi importanti.

Il cavallo di Troia
I servizi educativi che venivano appaltati agli oratori dalle comunità cristiane senza troppi problemi, sono diventati oggetto di riflessione anche da parte delle amministrazioni pubbliche e del mondo del Terzo settore. Questo ha acceso i riflettori sull’oratorio in modo nuovo anche se chiede l’attivazione di alcune competenze educative più specifiche. Solo nei film di don Camillo il prete interviene e risolve qualunque situazione. Alcuni sacerdoti hanno in carico più di una comunità e quindi è prevedibile che non si potrà contare su una disponibilità di tempo, una volta abbondante. Di fatto i preti seguono i ragazzi in gruppi, ma non c’è modo di prevedere sempre dei percorsi personalizzati che vengono da situazioni sempre più diffuse: il disagio, la disabilità, il confronto con ragazzi di altre culture e religioni. Questo costringerà la comunità ad attivarsi e i sacerdoti a costruire una rete di alleanze con persone e realtà presenti su un territorio, uscendo dal proprio piccolo orto perché questi problemi non si risolvono da soli. È un’estate più faticosa, ma sta portando con sé un vento di novità che potrebbe essere particolarmente salubre per le nostre comunità cristiane.

direttore Servizio nazionale per la Pastorale giovanile

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