venerdì 21 giugno 2019
Giuseppina De Simone, coordinatrice del corso partenopeo di teologia dedicato al grande mare: «Area di incontri e scontri fra culture, popoli e religioni, interroga la fede»
La teologa Giuseppina De Simone

La teologa Giuseppina De Simone

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Definisce il Mediterraneo un «luogo teologico» perché «da esso vengono alla nostra fede provocazioni a pensare» e perché «ci aiuta a capire il sogno di Dio, per quanto paradossale possa sembrare, il sogno di un’unità della famiglia umana come armonia delle diversità». Giuseppina De Simone è la coordinatrice del biennio di specializzazione in “teologia dell’esperienza religiosa nel contesto del Mediterraneo” che da due anni propone a Napoli la Sezione San Luigi della Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale. Nella linea di questo percorso si colloca il convegno nel capoluogo campano che papa Francesco conclude oggi. Fra gli interventi di ieri – prima giornata di lavori – c’è stato quello di Giuseppina De Simone. «Il Mediterraneo – spiega la docente ad Avvenire – ci pone dinanzi a una storia che è fatta di incontri e di scontri, di contaminazioni feconde tra culture popoli religioni, una storia in cui le diversità si sono composte in sintesi sorprendenti, persino a partire da situazioni di conflitto. Un contesto di contesti che ha tessuto un sentire comune, un’identità mediterranea che è centrata su alcuni valori primo fra tutti l’ospitalità».

Papa Francesco ha a cuore il Mediterraneo: prima l’incontro a Bari lo scorso anno con i capi delle Chiese del Medio Oriente; adesso la presenza a Napoli; quindi di nuovo a Bari il prossimo anno per l’Incontro dei vescovi della regione promosso dalla Cei. Perché questa attenzione?

Il Mediterraneo è “mare nostrum” non solo perché qui ci sono le radici della nostra fede e perché qui sono nati i tre grandi monoteismi che così profondamente, e a diverso livello, hanno contribuito alla formazione della civiltà occidentale e all’intreccio tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud del mondo, ma perché il Mediterraneo è “mare humanum” per il fatto stesso di essere mare tra terre, luogo del “tra”. Dal Mediterraneo, come ha profeticamente intravisto Giorgio La Pira, può venire il nostro futuro, il futuro di una cultura dell’incontro, come ama dire papa Francesco, di un’umanità ritrovata. Così come la conflittualità più devastante e la negazione dell’umano, la pace può scaturire dal Mediterraneo.

Perché un biennio teologico dedicato a questo mare?

Tutto nasce dall’esigenza di ripensare l’annuncio di fede a partire dalle provocazioni della storia e in dialogo con chi vive una fede diversa dalla nostra. La nostra teologia del Mediterraneo è cominciata mettendo al centro l’esperienza religiosa come ciò che ci unisce.

Da culla di civiltà e fedi a tomba di disperati: così appare oggi il Mediterraneo. C’è bisogno di una teologia di frontiera?

Sicuramente si. È una teologia implicata e militante la nostra. Una teologia che spinge a un’assunzione di responsabilità nei confronti della storia. Ma è della fede in Cristo ed è della vita della Chiesa l’essere sulla frontiera perché dalla parte dei più poveri, degli ultimi, degli scartati. Essere sulla frontiera pone allora nella condizione di uno sguardo più ampio che non è di parte, ma che può contribuire a tenere insieme, a ricucire relazioni di vita e di senso.

Come il Mediterraneo interroga la Chiesa?

Non si tratta di applicare alla vita categorie astratte, ma si tratta di lasciare che “il mare della vita” ci insegni quanto in essa è manifestato: la natura relazionale degli uomini del mare; dagli antichi racconti della migrazione e della peregrinazione classica, alle vicende dei popoli e delle tensioni anche sanguinose per una pretesa egemonica, al riconoscimento di un “tra” che cerca ciò che ci unisce e non ciò che ci divide. La teologia ascolta criticamente tutto questo e aiuta a spiegare le vele della comune navigazione dell’umanità di fratelli e non di nemici.

Nel febbraio 2020 la Cei organizza l’Incontro dei vescovi del Mediterraneo. Lei fa parte del comitato scientifico. Quali prospettive di fronte a un’iniziativa «unica nel suo genere», come lo ha definito il cardinale Bassetti?

Credo ci sia un’enorme potenzialità di speranza in questo evento. È un seme di pace posto nello stile della sinodalità. I vescovi si ritrovano per ascoltarsi ed ascoltare, per condividere le fatiche e le attese di Chiese locali che portano la sofferenza e sostengono la speranza della loro gente. Non un convegno, ma un incontro di spiritualità da cui può venire una prospettiva ulteriore di senso per costruire insieme il Mediterraneo come frontiera di un incontro reale, di una pace possibile. Frontiera di nuova umanità.

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