martedì 14 febbraio 2023
La comunità è formata da quattro religiose italiane (tutte attorno agli 80 anni d’età) e una giovane ugandese di 29 anni destinata al Brasile
Le cinque suore comboniane che operano ancora oggi a Gulu, in Uganda

Le cinque suore comboniane che operano ancora oggi a Gulu, in Uganda - Alfieri

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Sono le ultime “discendenti” di una missione storica, una missione che data oltre un secolo di vita nel cuore dell’Africa e che ha visto passare ribelli e militari, diplomatici e affaristi, gente di cuore pronta ad aiutare e profittatori. Sono quattro suore italiane, tutte attorno agli 80 anni, quattro più una, in realtà, perché c’è anche una quinta consorella, una giovane ugandese, destinata però a volare presto in Sudamerica. Gulu, Nord Uganda, oltre 200mila abitanti, seconda città di un Paese che si definisce “la perla d’Africa” in cui s’incrociano nuove speranze e antiche fragilità. È qui che la presenza delle suore comboniane resta viva e feconda, a dispetto degli anni che passano, a dispetto di numeri che oggi sono ultraridotti, rispetto a 40-50 anni fa, quando l’Uganda poteva contare su oltre 250 comboniane, un’ottantina delle quali proprio a Gulu. Restano, di quel patrimonio, suor Giovanna Calabria, originaria di Verona, suor Claudia Piffer, di Lavis (Trento), suor Virginia Chirico, di Brugherio (provincia di Monza e Brianza) e suor Lucia Comberlato, di Vicenza. Con loro, l’ugandese suor Anastasia, 29 anni, chiamata a trasferirsi a breve in una missione in Brasile.

Donne abbandonate, ragazzi di strada, famiglie povere e fragili: il servizio delle comboniane è da sempre al fianco degli ultimi. Un servizio che prosegue anche oggi. «Certo, essendo in poche facciamo quello che possiamo, ma il senso della nostra presenza non cambia – spiega per tutte suor Giovanna - Prima svolgevamo anche molta formazione pastorale, mentre adesso è la Chiesa locale ad occuparsi del lavoro nella cattedrale di St. Joseph e della preparazione dei catecumeni. Noi comunque siamo ancora qui. E alla fine siamo noi a occuparci delle realtà di maggiore vulnerabilità». Solo a Gulu, spiega suor Giovanna, ci sono 2mila ragazzi di strada, ragazzi a cui nessuno offre una speranza, ragazzi che si perdono tra alcool e poche possibilità di trovare un’occupazione e cambiare vita. «Quando la polizia fa le retate per strada, io vado a riprendermi questi giovani – racconta suor Giovanna –. E se mi dicono: “sono criminali” io rispondo: “no, non sono criminali, sono i nostri e i vostri figli e dobbiamo fare qualcosa per loro”. Hanno solo bisogno di affetto e di stima»..

Suor Giovanna è a Gulu dal ’71, con in mezzo anche una parentesi in Italia. «Sono arrivata all’inizio del governo di Amin», spiega, ricordando il dittatore che fu presidente dal golpe del 25 gennaio ’71 al ‘79. Un periodo sanguinoso, «anni di fuoco, di paura per la nostra gente, ma anche per noi e per i padri comboniani non è stato facile», sottolinea. «La caserma principale era proprio vicina e di notte sentivamo gli spari – racconta la religiosa –. I militari, che cercavano sempre automobili, benzina e soldi, mettevano in fila le persone che volevano eliminare e li colpivano a morte. C’erano sempre soldati in giro e abbiamo accolto tanta gente che cercava di rifugiarsi. Noi gestivamo un asilo, inoltre le mie consorelle avevano incarichi nei vari reparti del Lacor Hospital, altre hanno aiutato la crescita delle Piccole suore di Maria Immacolata, altre ancora operavano nella scuola secondaria e nella scuola per maestre». Un grande impegno nella sanità e nella formazione, al servizio della comunità.

L’era Amin termina nel ’79 con l’invasione sostenuta dalle forze della Tanzania e ancora tante vittime. «Non c’era più alcun controllo – ricorda suor Giovanna -. Nascondevamo i padri missionari, a cui venivano chiesti soldi. C’erano spari giorno e notte e noi accoglievamo un centinaio di persone di altre tribù e degli acholi: nei villaggi era pieno di soldati. Non potevamo nemmeno accendere le luci la sera. Ci è stato anche offerto di andar via, ma abbiamo risp osto: mai lasceremo la nostra gente». Negli anni successivi, in Uganda esplode anche la diffusione dell’Hiv, che falcidia un’intera generazione: «Tutti i malati venivano rinchiusi nelle loro capanne e lasciati morire – sottolinea suor Giovanna -, quindi abbiamo iniziato a far loro visita, a portarli in ospedale, a pulirli. Morivano e all’inizio non si sapeva nemmeno che fosse Aids». E da un flagello all’altro, con la feroce guerriglia guidata nel Nord Uganda dal leader ribelle Joseph Kony, che rapisce e arruola anche i minorenni. «Il Lacor Hospital era pieno di gente di notte, di bambini che si nascondevano per non essere sequestrati. Secondo alcune stime, Kony ha portato via più di 30mila ragazzini e ragazzine, ed è possibile che siano stati anche il doppio – sottolinea la comboniana -. Noi aiutiamo molto le donne che sono tornate dai ribelli ormai da 10-15 anni, ma il trauma non si rimargina. E poi aiutiamo anche ragazzi e ragazze che sono nati da queste donne nella foresta. È stata la tragedia più grande, perché le conseguenze ci sono ancora adesso».

Suor Giovanna evidenzia l’esempio di san Daniele Comboni, primo vescovo cattolico dell’Africa centrale, e di papa Francesco, con il suo recente viaggio nel continente: «Credo molto nelle parole del Pontefice, nell’importanza delle periferie, dell’essere presenti, del mostrare la tenerezza del Signore. Siamo al fianco di quelli che nessuno vuole più. E in questo contesto vuol dire ancora molto».

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