martedì 7 febbraio 2017
A partire dal caso don Contin cosa fare di fronte ai segni di disagio dei sacerdoti. Parla padre Crea
Il comboniano padre Giuseppe Crea, psicologo e psicoterapeuta

Il comboniano padre Giuseppe Crea, psicologo e psicoterapeuta

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E se la soluzione fosse nel continuare a formarsi, ad autoformarsi, senza sosta? Proprio come procede senza sosta la macchina del mondo e della parrocchia? Se la soluzione fosse racchiusa in due parole antiche, direzione spirituale, e in una persona saggia con la quale confrontarsi sul proprio stile di vita? Quando un presbitero o un religioso viene meno alla sua premessa, tradisce e dà scandalo, non ci sono formule magiche. Ma studio, attenzione e soprattutto mai, mai, mai girare la testa dall’altra parte. Padre Giuseppe Crea, comboniano, psicologo e psicoterapeuta, docente di Tecniche psicodiagnostiche all’Università Pontificia Salesiana, ha esperienza da vendere e la mette a disposizione. Tra i suoi libri più recenti: Tonache ferite. Forme del disagio nella vita religiosa e sacerdotale (Edb, 2015) e Preti e suore oggi. Come riconoscere e prevenire i problemi (con Fabrizio Mastrofini, Edb, 2012).

Il caso del parroco padovano di San Lazzaro, don Andrea Contin, è solo l’ultimo di un lunga, triste serie. Preti e religiosi che tradiscono se stessi, la comunità, i confratelli. Padre Crea, sono casi isolati e trascurabili o il segno di un disagio diffuso?
Questi casi ci ricordano che la Chiesa ha bisogno di cambiare rotta, ossia di modificare i pilastri del suo modo di formare. I tempi sono particolari, il pontificato è propizio, il rinnovamento può essere profondo.

Ma che cosa accade a questi preti? E in che cosa sarebbe da correggere l’attuale modello formativo?
Dobbiamo formare preti capaci di governare una comunità parrocchiale, con tutto quel che ciò comporta. Ma la persona non è un automa. Quando si sta in mezzo alla gente, entra sempre in gioco la dimensione affettiva. Se il prete non è del tutto maturo, ma cova frustrazioni e conflitti, questi possono es- sere le premesse delle prime sbandate.

E nessuno coglie i segnali di malessere già presenti?
La patologia non compare mai all’improvviso ma ha una storia precedente, e tante fragilità sono già presenti quando un candidato chiede di entrare in seminario. Dovremmo chiederci: perché lo chiede? Mai dimenticarci la lezione di padre Luigi Rulla.

L’illustre psicologo gesuita?
È morto ormai da 15 anni. Medico, filosofo e teologo, laureato in psichiatria a Montreal e in psicologia a Chicago, nel 1971 ha fondato l’Istituto di psicologia presso la Pontificia Università Gregoriana. La sua lezione non va dimenticata. Ci diceva: chi entra in Seminario ha tante ottime motivazioni, però esteriori. Diverse da quelle interiori, subconscie. Occorre partire da lì.

Ma come accorgersi del disagio interiore, se non emerge? Dobbiamo riempire i seminari di psicologi?
No, non abbiamo bisogno di nuovi superformatori specializzati. Basta che ognuno faccia bene, per intero, il proprio dovere. Un formatore saggio sa leggere il rapporto con il formando, ma deve possedere buone capacità relazionali. Occorre essere estremamente attenti ai segnali della vita quotidiana. Non è molto diverso da quanto accade in famiglia. Per essere buoni genitori, non occorre un raffinato curriculum di studi. Basta saper cogliere i segnali e non volgere lo sguardo.

In concreto, quali segnali?
Ad esempio, c’è chi beve un bicchiere di troppo. Una volta sola: pazienza. Ma la cosa si ripete e a quel punto non bisogna far finta di nulla. I gesuiti americani parlano di «normalizzazione della devianza». È una sorta di «buonismo relazionale» che impedisce di vedere e dire la verità. Sempre in famiglia, accade che il marito picchi la moglie e si dica: l’ha fatto una volta sola, speriamo non si ripeta. Invece il segnale è forte e non va fatto cadere. Con un presbitero accade una cosa analoga: si spera che si ravveda, che non accada più. Lo si sposta... Ma intanto la patologia lavora. Spostarlo è spesso peggio: chi ha problemi relazionali si convince di non essere compreso dai superiori e dai confratelli, ma nella comunità continua a fare il «superprete » e tutti lo gratificano.

Un disastro annunciato...
È come se la devianza diventasse parte del vissuto quotidiano e tutti fingessero di non accorgersene. Il prete alza il gomito, riceve la penitente nella sua stanza, sparisce per giorni senza che si sappia dove sia... ma in fondo nessuno si preoccupa davvero.

Perché?
Un prete che beve non è cosa normale e attorno a sé crea disagio, dunque si finge di non vedere. La psiche può spingerci a ignorare ciò che ci procura ansia.

Paura di tenere aperti gli occhi?
E paura della sincerità. Prendiamo papa Francesco. Perché suscita meraviglia? Per la sua schiettezza, perché le cose non le manda a dire. Però attenzione, è un ottimo formatore e la sua apparente emotività non deve trarci in inganno. Sempre, con i suoi comportamenti attiva una riflessione, dà spiegazioni. Se bacia un bambino, poi spiega perché sia importante accogliere l’altro.

Che cosa manca dunque all’attuale processo formativo di religiosi e presbiteri?
I preti non sono, non devono essere funzionari a cui viene affidata una parrocchia e addio. Nella solitudine e nella frustrazione, le patologie figlie di una precedente fragilità hanno gioco facile. Dovremmo saper fare formazione permanente che, attenzione, non consiste in un anno sabbatico o negli esercizi spirituali. Occorre un collegamento stretto tra formazione e vita, senza sosta, che aiuti il prete a imparare sempre.

Autoformazione? E come?
La parrocchia è assai spesso una macchina tanto vorticosa da togliere il fiato. Una macchina delicatissima: nelle mani del prete c’è la vita della gente. Sa come si chiamava una volta questa supervisione permanente di se stessi? Direzione spirituale. È necessario confrontarsi sul proprio stile di vita con una persona saggia.

Ci sono, disponibili, tutte queste persone sagge?
Questo è un altro discorso.


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