Regole e ascolto: a Brescia c'è un antidoto alla violenza giovanile
di Redazione
Il quartiere di San Polo ha dovuto fare i conti con rapine e aggressioni da parte di ragazzini. Le parrocchie si sono mobilitate e hanno invitato il Comune ad affrontare insieme il problema

«Abbiamo denunciato i violenti, è stato doloroso ma necessario. Anche per tagliare quei fili che altrimenti trascinano anche i più piccoli, scatenando l’emulazione. Ma la repressione, da sola, non basta». Don Marco Mori guida la parrocchia della Conversione di San Paolo, piantata nel mezzo del quartiere difficile di San Polo, periferia est di Brescia: 30mila abitanti, di cui un buon 30% di origine straniera. «Ci sono Centri estivi senza iscritti battezzati…» rileva don Mori. Uno scenario complicato, che però sta provando a trasformarsi in un laboratorio di convivenza possibile.
Un paio di anni fa l’oratorio, come quello vicino di Sant’Angela Merici, è stato investito in pieno da un’ondata di microcriminalità giovanile senza precedenti. Lo stesso don Mori è stato aggredito da un energumeno. Ma non ha ceduto alla logica della prepotenza e ha rilanciato la sfida, puntando su coinvolgimento e (ri)educazione. «Ci siamo chiesti cosa stava succedendo, ci sono stati momenti di vera paura. Abbiamo convocato un’assemblea pubblica che è stata molto partecipata, abbiamo incontrato ragazzi e genitori. È emerso che molti adolescenti non uscivano più di casa perché erano stati picchiati in strada, rapinati, in alcuni casi addirittura sequestrati per alcuni lunghi terribili momenti, sotto minaccia di coltelli: anche qui purtroppo sono molto diffusi. Dialogo e fermezza hanno migliorato la situazione, con l’aiuto della Fondazione Cariplo abbiamo avviato un percorso per avvicinare questi ragazzi, grazie anche alla presenza fissa di educatori professionali in oratorio». Fino a poco tempo fa i gruppi di bulli – tra loro anche diverse ragazzine - piombavano in oratorio come un’orda, adesso iniziano a vivere gli spazi comuni con rispetto. «Se vuoi stare qui devi seguire le regole – sottolinea don Filippo Zacchi, responsabile giovanile dell’unità pastorale –. Questa è la prima cosa importante. Se lo fai, siamo pronti a darti una seconda possibilità. Quest’estate, ad esempio, avremo due giovani che svolgeranno il periodo di messa in prova tra i 40 adolescenti animatori che si occuperanno di 180 bambini. Un altro l’abbiamo mandato a fare canoa in una società sportiva al vicino parco delle Cave. Il percorso di reinserimento è fondamentale per cambiare le cose».

Molti ragazzi difficili calano dalla vicina Torre Cimabue, uno dei famigerati casermoni di venti piani costruiti mezzo secolo fa, storicamente segnati da degrado e inciviltà: c’è persino chi lancia l’immondizia dalle finestre, costringendo la polizia locale a scortare i netturbini durante le operazioni di sgombero. Un contesto che non incentiva il rispetto delle regole. «Se questi giovani sono così è perché sono lasciati soli dalle famiglie. Spesso li vedi sul nostro campetto a giocare fino alle sette di sera. Nessuno li chiama per cena, continuano a vagare finché fa buio» continua don Filippo. La parrocchia resta uno dei pochi punti di approdo di questa gioventù alla deriva. Anche perché non esistono piazze che spezzino i vialoni anonimi di una periferia cresciuta in modo disordinato attorno al grande stabilimento dell’Alfa Acciai. Dove una volta c’erano gli operai comunisti (tanto che una frazione era soprannominata “Russia”), adesso vive gente venuta da lontano, in cerca di una difficile integrazione. Colpa anche dei troppi interventi di edilizia pubblica concentrati nella stessa zona, quasi a voler accatastare le fragilità dove ce ne sono già troppe. Una storia già vista in tante periferie italiane, con gli enormi palazzoni spuntati negli anni ’70-’80 per ospitare i lavoratori in arrivo dalle campagne e dal Sud, degenerati in fretta in ghetti che ora sono abitati dai nuovi poveri, i migranti. Eppure, proprio a San Polo ci sarebbe stato un buon esempio da seguire. L’intuizione giusta la ebbe don Ottorino Marcolini, il prete geometra che negli anni ’50 fece costruire villette a schiera a costi (e mutui) agevolati, con i proprietari iscritti alla cooperativa. Proprio accanto, senza una logica urbanistica, è stata poi innalzata la torre Cimabue. Un alveare umano a pochi passi dal villaggio sostenibile. Case vicine, mondi lontanissimi. «Ogni tanto qualcosa succede, arriva la polizia – dice un residente mentre sistema il giardinetto -. Ma nel complesso si vive tranquilli, loro là e noi qui». Guai però pensare che nella Torre abiti solo il disagio. C’è la giovane straniera divenuta mediatrice culturale con tanto di laurea in Cattolica, oppure la cuoca che durante le feste in oratorio prepara il cous cous per tutti.

Sotto la torre è nata una sartoria multietnica, fondamentale per l’opera di tessitura sociale, così come è preziosa la funzione inclusiva della scuola d’italiano, del doposcuola in oratorio, della ludoteca e del Caf del circolo Acli, che aiuta i migranti a fare la dichiarazione dei redditi. Spazi di umanità che colmano i vuoti generati dalla mancanza di negozi vicinato e locali pubblici: i pochi che ci sono si condensano attorno alla stazione della metropolitana. La linea porta dritta in centro, trascinandosi dietro il suo carico di malessere giovanile. «La metà di quelli che si ritrovano in piazza Vittoria li conosciamo – dice don Mori – ma grazie al lavoro di ricucitura che stiamo facendo ti vengono incontro e ti salutano». Da sempre chi proviene da San Polo si porta addosso una cattiva fama, che nell’ambiente giovanile di strada si tramuta in distintivo da esibire. Ora le cose stanno cambiando: il metodo del “bastone e della carota” si rivela efficace, tanto che la giunta comunale guarda con interesse ai sacerdoti di San Polo. A marzo, dopo una serie di arresti tra le baby gang («Ma non chiamiamole così, perché non sono gruppi strutturati»), don Mori ha proposto alla sindaca Laura Castelletti di istituire un tavolo sulle problematiche degli under 18. Invito raccolto, anche se ancora in fase progettuale.
«La Chiesa è da sempre un punto di riferimento per la comunità cittadina, gli oratori favoriscono l’inclusione – sottolinea Anna Frattini, assessora delle politiche sociali – è doveroso e normale coinvolgere i parroci nelle politiche urbane. Quello che si sta facendo a San Polo si può esportare anche in altri quartieri dove si stanno registrando segnali preoccupanti. Per piazza Vittoria pensiamo a un patto di comunità, che faccia convivere tutti coloro che la popolano, dai commercianti alle compagnie di ragazzi. Partiremo dall’ascolto dei bisogni, per mettere a fuoco gli interventi giusti». Qualche idea sul “tavolo” c’è già: «Vorremmo trasformarla in un luogo a misura di famiglie, senza escludere le situazioni di marginalità che la caratterizzano». Don Marco Mori è pronto a fare la sua parte perché, spiega, «nessuno può risolvere da solo una questione così complicata, nemmeno l’amministrazione comunale. La regia deve essere pubblica, ma tutta la città è chiamata a farsene carico».

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