Ragazzi, bullismo e violenza: «I social complicano. I genitori si muovano»

La psichiatra Federica Mormando: «L'utilizzo delle nuove tecnologie modifica la nostra capacità di percezione e di sviluppare empatia. I chatbot disabituano al contraddittorio. I rimedi? In famigl
September 16, 2025
Ragazzi, bullismo e violenza: «I social complicano. I genitori si muovano»
Icp | I genitori ricomincino dalle piccole cose: proponendo ai figli esperienze di arricchimento alternative all'utilizzo delle nuove tecnologie
Che sviluppare il pensiero critico nei bambini e nei ragazzi sia una necessità Federica Mormando lo dice e lo scrive da anni. Poi succede che la storia presenti il conto, e la necessità diventa cronaca. «Diventa emergenza, diciamolo pure», spiega la psichiatra, che è punto di riferimento in Italia per i bambini e i ragazzi ad alto potenziale intellettivo, e ha da poco pubblicato Intelligenza artificiale – una mente a contatto con la nostra (Edizioni Red). Bullismo, odio e violenza sono il portato dell’incapacità sostanziale di confronto che le nuove tecnologie hanno amplificato e accelerato negli ultimi anni. E che i genitori non sanno gestire. «Arrivano a studio, spiegano che i figli passano tutto il tempo libero davanti a un telefono, a un tablet , a un computer, e che non riescono a distoglierli da lì. Si rendono conto che la situazione è grave, che si tratta di una dipendenza, ma se ne accorgono quando è ormai troppo tardi».
Come si è arrivati a questo punto?
È stata una progressione: videogiochi, social, chatbot. L’utilizzo costante, nei bambini come negli adulti, comporta una prima grave conseguenza: la diminuzione dei neuroni-specchio, da cui dipende, in buona parte, lo sviluppo del processo di imitazione e di apprendimento sociale. Sono lo strumento che ci consente di comprendere le azioni degli altri, di sentire ciò che provano, di attivare le aree dell’affettività nel cervello. Insomma di sviluppare l’empatia. Che infatti va scemando con progressione costante, strutturando la nostra indifferenza. I social incidono poi sul rapporto con la stima di sé. Il successo è determinato dalla quantità di Like che ricevi, e per ricevere i Like non puoi manifestarti per quello che sei, con le tue fragilità. Infine, i chatbot finiscono per favorire derive narcisistiche, che sono in pericoloso aumento. Le chiacchiere con un assistente virtuale non sono neanche lontanamente paragonabili all’esperienza di un dialogo vero: è un io che parla a se stesso. E che non ti abitua al contraddittorio. E se non ti eserciti al contraddittorio, finisci per considerare un “nemico” chi, nella vita reale, non la pensa come te.
È cambiata la nostra capacità di comprensione?
In generale, negli ultimi anni è diminuito il nostro quoziente intellettivo. Molte ricerche lo documentano. Il pensiero complesso è ostacolato dall’uso di Internet perché gli imput che derivano dagli schermi hanno una velocità maggiore di quella necessaria alla trasmissione sinaptica, e quindi impediscono la formazione del pensiero. Che è un pensiero lento. Finisce per essere privilegiato il pensiero binario, quello che risponde all’impulso. Non è un caso che germinino forme di violenza, con ribellioni e parolacce, sin dalle elementari.
I genitori riescono a governare questa deriva?
No. Non sanno più regalare ai bambini l’esperienza di una cena in cui si parla. I ragazzi non sanno letteralmente cos’è. Trovano “comodo” confrontarsi con l’IA perché non hanno accesso all’alternativa: nessuno ha presentato loro la possibilità di sviluppare passioni e interessi che potrebbero essere sicuramente più interessanti. Un ragazzo appassionato di musica, di disegno o di trekking difficilmente si può entusiasmare all’IA.
Però i genitori si affannano a portare i figli a fare nuoto, calcio, scherma: “contenitori” per la socializzazione e l’esperienza.
La maggior parte dei ragazzi non ha imparato a creare rapporti solidi, intimi: vengono semplicemente “addestrati allo sport”: in piscina o sul campo da calcio o sul campo da tennis si sviluppano molto spesso pure dinamiche di competizione.
Non accadeva lo stesso con le generazioni passate, magari in modo diverso?
Assolutamente no. Noi in un certo senso siamo stati naturalmente “obbligati” a sviluppare le nostre capacità relazionali perché non c’era altro: si giocava in cortile, per strada. Avevamo delle regole. Gli insegnanti erano un’autorità riconosciuta. Oggi c’è una distruzione della struttura sociale che apre spazi potenzialmente infiniti all’IA.
Non si corre il rischio, sottraendo l’accesso alla tecnologia e ai chatbot, di non preparare i bambini a un mondo nuovo che, in fondo, è questo?
Non si tratta di sottrarre, ma di insegnare un uso intelligente. Intanto non bisognerebbe esporre i bambini all’utilizzo delle tecnologie prima dei sei-sette anni: fino ad allora deve essere permesso loro di sperimentare tutti i sensi. Mentre si dovrebbe consentire un uso estremamente limitato fino all’adolescenza.
In generale ne emerge un quadro sconfortante.
Sì, ma non irrimediabile. La prima rivoluzione dovrebbe essere fatta dai genitori. Molti passano le serate sul divano consultando il cellulare invece di dialogare. Chiaro che poi i bambini prendono l’esempio. Entrino in gioco. Recuperino la tendenza naturale alla creatività, alla curiosità, alla spiritualità. Non ci vuole un impegno clamoroso. Si cominci da qui: dalle piccole cose.

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