Pulizia e disciplina: Cristina Trivulzio, la prima infermiera
La marchesa milanese che nell'Ottocento fu pioniera a Roma dell'assistenza. «Gli ospedali erano vecchi e sporchi. Mazzini le chiese di provvedere. Ci riuscì. Lottando contro i pregiudizi maschili»

Ci sono storie di persone del passato che, pur non celebri o avvolte dall’oblio, sembrano attenderci per donare speranza. Con Gerolamo Fazzini, già autore un anno fa della fortunata serie sui “protagonisti dimenticati”, da oggi apriamo ogni mercoledì lungo tutta l’estate un ideale album di testimoni credibili della speranza – nei suoi profili più umani – su cui il Giubileo ci sta invitando a verificare la nostra stessa vita.
La speranza di poter sopravvivere, benché feriti in battaglia, ha iniziato a prendere corpo attorno a metà Ottocento. In una famosa illustrazione di fine XIX secolo si vede una donna sulla trentina, con in mano una lampada, mentre assiste un soldato colpito. La giovane è la britannica Florence Nightingale che, durante la guerra di Crimea, approdò all’ospedale militare di Scutari, nel 1854 nel pieno di un’epidemia di colera. Grazie a lei e alle sue regole inflessibili (locali puliti e arieggiati, igiene dei pazienti, pasti sani), il mondo avrebbe scoperto il ruolo cruciale delle infermiere. La “signora con la lampada” – così è passata alla storia – ebbe poi la geniale intuizione di raccogliere una serie di osservazioni e dati statistici che avrebbero dato origine nel 1859 al rivoluzionario Notes on Nursing (ossia “Cenni sull’assistenza degli ammalati”). L’operato della Nightingale, che aveva alla base una forte ispirazione religiosa, essendo lei fervente anglicana, venne presto riconosciuto dai giornali e dai politici. Di lì a qualche anno, nel 1883, il fondatore della Croce Rossa, l’imprenditore svizzero Henry Dunant, attribuìrà a Florence l’ispirazione della sua benemerita iniziativa. La popolarità di Nightingale andrà poi aumentando nel tempo: nel 1936 le fu dedicato il film L’angelo bianco; mentre nel 1951 un’altra pellicola, La donna con la lampada, l’avrebbe consacrata come la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna.
In anticipo su Nightingale, tuttavia, un’altra donna, lottando strenuamente contro pregiudizi maschilisti, dimostrò doti non comuni di leadership, oltre che competenze in materia sanitaria assolutamente innovative per l’epoca. Stiamo parlando della marchesa Cristina Trivulzio, diventata poi principessa Barbiano di Belgiojoso, milanese doc, nata nel 1808 e morta nel 1871. Se di Nightingale si comincia a trovar traccia anche in qualche manuale di storia per la scuola e due anni fa è uscita da Laterza la biografia di Bruno Cianci Una lanterna nel buio. Florence Nightingale, la prima infermiera”, la figura della Trivulzio (sebbene si contino numerose sue biografie) continua ad essere poco nota fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori: ad essi si rivolge il prezioso volume, edito da Franco Angeli nel 2010, a cura di Mariachiara Fugazza e Karoline Rorig, significativamente intitolato La prima donna d’Italia. Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo.
Lo scenario in cui si dispiegò la pionieristica esperienza della Trivulzio è quello della Repubblica romana, uno degli esperimenti politici che, sulla scia delle grandi rivolte del 1848, segnarono la storia dell’Europa. Il 9 febbraio 1849, dopo la fuga di papa Pio IX, a Roma si instaurò un triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Gli scontri che ne seguirono - i soldati francesi accorsi su richiesta del Papa contro bersaglieri e volontari a difesa degli insorti - determinarono la necessità di interventi sanitari strutturati. Ma in quel periodo gli ospedali erano vecchi e sporchi, le attrezzature disponibili scarse e obsolete e il personale inadatto poiché impreparato. Fu lo stesso Mazzini a chiedere aiuto a Cristina, la quale, pur essendo la più ricca ereditiera d’Italia, si era già distinta come patriota, partecipando attivamente alle Cinque giornate di Milano.
Il contesto medico-scientifico nel quale la marchesa si trovò a operare aveva ben poco in comune con il nostro. I medici passavano, allora, con disinvoltura (e con i camici sporchi di sangue!) dagli obitori all’assistenza alle puerpere. Soltanto nel 1847 il medico ungherese Ignác Semmelweis intuì l’importanza della pulizia e della sterilizzazione nella cura dei malati. Purtroppo, però, a Semmelweis la medicina ufficiale non credette, se non con grave ritardo.
In una situazione del genere, Cristina ebbe il merito di muoversi con non comuni capacità organizzative. Trovò in chiese e conventi luoghi dove accogliere i feriti; il suo quartier generale diventò l’ospedale dei Pellegrini. Ha scritto l’esperta Marisa Siccardi: «L’epidemia di colera che imperversava durante quei mesi in altre località italiane non colpì Roma e si può supporre che a questo possa aver contribuito il rigore igienico imposto dalla Belgiojoso, litigando spesso per questo motivo (e non solo) con medici e infermieri maschi». Un testimone oculare dell’epoca, l’artista ed editore William Wetmore Story ebbe modo di conoscere di persona Cristina Trivulzio e nel suo volume Roba di Roma annota: «L’operosità di questa eroica gentildonna e la sua instancabile carità meriterebbero l’omaggio di una penna assai più valente della mia; poiché non soltanto introdusse ovunque l’ordine, la disciplina e le regole di un’esemplare pulizia, ma si consacrò personalmente alla cura degli ammalati e dei feriti». E ancora: «La principessa diè prova di quelle facoltà che nella donna sono specialissime e la fanno superiore all’uomo: così l’ospitale dei Pellegrini fu tosto ridotto ad una disciplina mirabile, imposta con saggia fermezza».
Di che stoffa fosse la Trivulzio lo documenta un fatto emblematico. All’appello rivolto alle donne romane perché andassero ad assistere i feriti della Repubblica risposero in molte, di tutte le classi sociali; ne vennero scelte circa 300, tra le quali alcune prostitute. Una circostanza che venne strumentalizzata per denigrare Trivulzio e compagne. Ma l’interessata non si perse d’animo e scrisse direttamente al Papa: «Mi accadde, l’ammetto, di venire informata che l’una o l’altra delle aiutanti dell’ospedale fosse nota per aver esercitato in precedenza una professione disonesta. Se quell’avvertimento mi fosse arrivato prima, indubbiamente le avrei escluse, ma tale non era il caso. Le donne che mi venivano denunciate erano state per giorni e giorni a vigilare al capezzale dei feriti; non si ritraevano dinanzi alle fatiche più estenuanti, né agli spettacoli più ripugnanti. Nessuno poteva rimproverare a quelle donne una parola o un gesto meno che decoroso e casto. Ciò nonostante, forse avrei potuto ugualmente espellerle se non avessi io adorato il precetto di quel Dio che, in sembianza umana, non disdegnò che una donna di perversi costumi gli ungesse i piedi e glieli asciugasse con le sue lunghe trecce».
Non esagerava Andrea Cionci quando, qualche anno fa su Repubblica, scriveva: «Cristina Trivulzio è una “madre della patria” tutta da riscoprire». E giustamente il Comune di Milano nel 2021 le ha dedicato una statua (la prima nella storia della città in onore di una donna) nell’omonima, centralissima piazzetta. Ma si può fare di più. Dopo quella su Lidia Poët, la prima figura femminile iscritta all’Ordine degli avvocati, e quella su Fernanda Wittgens, prima donna ad aver assunto la direzione della Pinacoteca di Brera, anche la nobildonna milanese (tra le “eroine invisibili dell’Unità d’Italia”, come la chiama Bruna Bertolo in un volume del 2011) meriterebbe forse d’essere immortalata da una fiction di successo.
In anticipo su Nightingale, tuttavia, un’altra donna, lottando strenuamente contro pregiudizi maschilisti, dimostrò doti non comuni di leadership, oltre che competenze in materia sanitaria assolutamente innovative per l’epoca. Stiamo parlando della marchesa Cristina Trivulzio, diventata poi principessa Barbiano di Belgiojoso, milanese doc, nata nel 1808 e morta nel 1871. Se di Nightingale si comincia a trovar traccia anche in qualche manuale di storia per la scuola e due anni fa è uscita da Laterza la biografia di Bruno Cianci Una lanterna nel buio. Florence Nightingale, la prima infermiera”, la figura della Trivulzio (sebbene si contino numerose sue biografie) continua ad essere poco nota fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori: ad essi si rivolge il prezioso volume, edito da Franco Angeli nel 2010, a cura di Mariachiara Fugazza e Karoline Rorig, significativamente intitolato La prima donna d’Italia. Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo.
Lo scenario in cui si dispiegò la pionieristica esperienza della Trivulzio è quello della Repubblica romana, uno degli esperimenti politici che, sulla scia delle grandi rivolte del 1848, segnarono la storia dell’Europa. Il 9 febbraio 1849, dopo la fuga di papa Pio IX, a Roma si instaurò un triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Gli scontri che ne seguirono - i soldati francesi accorsi su richiesta del Papa contro bersaglieri e volontari a difesa degli insorti - determinarono la necessità di interventi sanitari strutturati. Ma in quel periodo gli ospedali erano vecchi e sporchi, le attrezzature disponibili scarse e obsolete e il personale inadatto poiché impreparato. Fu lo stesso Mazzini a chiedere aiuto a Cristina, la quale, pur essendo la più ricca ereditiera d’Italia, si era già distinta come patriota, partecipando attivamente alle Cinque giornate di Milano.
Il contesto medico-scientifico nel quale la marchesa si trovò a operare aveva ben poco in comune con il nostro. I medici passavano, allora, con disinvoltura (e con i camici sporchi di sangue!) dagli obitori all’assistenza alle puerpere. Soltanto nel 1847 il medico ungherese Ignác Semmelweis intuì l’importanza della pulizia e della sterilizzazione nella cura dei malati. Purtroppo, però, a Semmelweis la medicina ufficiale non credette, se non con grave ritardo.
In una situazione del genere, Cristina ebbe il merito di muoversi con non comuni capacità organizzative. Trovò in chiese e conventi luoghi dove accogliere i feriti; il suo quartier generale diventò l’ospedale dei Pellegrini. Ha scritto l’esperta Marisa Siccardi: «L’epidemia di colera che imperversava durante quei mesi in altre località italiane non colpì Roma e si può supporre che a questo possa aver contribuito il rigore igienico imposto dalla Belgiojoso, litigando spesso per questo motivo (e non solo) con medici e infermieri maschi». Un testimone oculare dell’epoca, l’artista ed editore William Wetmore Story ebbe modo di conoscere di persona Cristina Trivulzio e nel suo volume Roba di Roma annota: «L’operosità di questa eroica gentildonna e la sua instancabile carità meriterebbero l’omaggio di una penna assai più valente della mia; poiché non soltanto introdusse ovunque l’ordine, la disciplina e le regole di un’esemplare pulizia, ma si consacrò personalmente alla cura degli ammalati e dei feriti». E ancora: «La principessa diè prova di quelle facoltà che nella donna sono specialissime e la fanno superiore all’uomo: così l’ospitale dei Pellegrini fu tosto ridotto ad una disciplina mirabile, imposta con saggia fermezza».
Di che stoffa fosse la Trivulzio lo documenta un fatto emblematico. All’appello rivolto alle donne romane perché andassero ad assistere i feriti della Repubblica risposero in molte, di tutte le classi sociali; ne vennero scelte circa 300, tra le quali alcune prostitute. Una circostanza che venne strumentalizzata per denigrare Trivulzio e compagne. Ma l’interessata non si perse d’animo e scrisse direttamente al Papa: «Mi accadde, l’ammetto, di venire informata che l’una o l’altra delle aiutanti dell’ospedale fosse nota per aver esercitato in precedenza una professione disonesta. Se quell’avvertimento mi fosse arrivato prima, indubbiamente le avrei escluse, ma tale non era il caso. Le donne che mi venivano denunciate erano state per giorni e giorni a vigilare al capezzale dei feriti; non si ritraevano dinanzi alle fatiche più estenuanti, né agli spettacoli più ripugnanti. Nessuno poteva rimproverare a quelle donne una parola o un gesto meno che decoroso e casto. Ciò nonostante, forse avrei potuto ugualmente espellerle se non avessi io adorato il precetto di quel Dio che, in sembianza umana, non disdegnò che una donna di perversi costumi gli ungesse i piedi e glieli asciugasse con le sue lunghe trecce».
Non esagerava Andrea Cionci quando, qualche anno fa su Repubblica, scriveva: «Cristina Trivulzio è una “madre della patria” tutta da riscoprire». E giustamente il Comune di Milano nel 2021 le ha dedicato una statua (la prima nella storia della città in onore di una donna) nell’omonima, centralissima piazzetta. Ma si può fare di più. Dopo quella su Lidia Poët, la prima figura femminile iscritta all’Ordine degli avvocati, e quella su Fernanda Wittgens, prima donna ad aver assunto la direzione della Pinacoteca di Brera, anche la nobildonna milanese (tra le “eroine invisibili dell’Unità d’Italia”, come la chiama Bruna Bertolo in un volume del 2011) meriterebbe forse d’essere immortalata da una fiction di successo.
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