Povertà: ecco cosa non funziona nell'Assegno di inclusione

La Caritas nel suo Rapporto evidenzia i deficit di impostazione della misura che ha sostituito il Reddito di cittadinanza. Bellucci: no ai sussidi generalizzati
October 8, 2025
Un'anziana signora a Roma nel mercato rionale di Val Melaina
Un'anziana signora a Roma nel mercato rionale di Val Melaina
L’Assegno di inclusione – che ha cancellato e sostituito il Reddito di cittadinanza – ha centrato l’obiettivo di ridurre la povertà e la sua incidenza? Protegge meglio i singoli cittadini e le famiglie? La risposta, a voler spoilerare il finale del Rapporto Caritas 2025 sulle politiche di contrasto alla povertà, è: «no». Ma quella dell’ente ecclesiale non è una bocciatura tout court, soprattutto non è la contrapposizione lo spirito con cui ci si vuol misurare con il mondo politico, istituzionale e sociale su una questione così importante per la vita delle persone. Piuttosto, la volontà è quella di mantenere vivo il confronto per migliorare l’efficacia della misura, mettendo a disposizione dei decisori da un lato l’analisi scientifica dei dati a disposizione e dall’altro l’esperienza di chi, nei territori, opera quotidianamente a fianco e con i poveri, come avviene nei centri di ascolto, nelle mense e negli empori della capillare rete Caritas.

Gli errori del Rdc non corretti e amplificati

Martedì prossimo l’Istat diffonderà i dati aggiornati che diranno se nel 2024, anno in cui è stato introdotto l’Assegno di inclusione (Adi), il numero dei cittadini in povertà assoluta è calato o meno rispetto ai 5,7 milioni del 2023, il 9,7% dei cittadini, l’8,4% delle famiglie nel nostro Paese. Nell’attesa, però, l’analisi di diverse fonti - dall’Istat alla Banca d’Italia, alle ricerche di diverse università - testimoniano come l’Adi «riduca meno l’incidenza della povertà assoluta: dall’8,9% all’8,3% mentre il Rdc l’aveva fatta calare al 7,5%». D’altro canto, tra i poveri che erano beneficiari del Rdc ben il 40,6% è rimasto escluso dal nuovo strumento. Le categorie più penalizzate «risultano essere le famiglie piccole, i nuclei senza minori, disabili o anziani che sono esclusi dal nuovo schema e poi i lavoratori poveri, gli stranieri e chi vive nel Centro-Nord». Inoltre, si legge sempre nel Rapporto, «cresce il rischio dei cosiddetti "falsi negativi", ossia gli effettivamente poveri che restano esclusi dal sostegno». Questo perché, rispetto al Rdc - che pure scontava molti difetti, due su tutti: privilegiare i single rispetto alle famiglie, coprire solo un terzo dei nuclei in povertà e beneficiare invece per il 46% non-poveri assoluti - l’Adi ripete e amplifica alcuni errori. Lo si comprende osservando la «discrepanza tra la distribuzione geografica dei poveri e quella dei beneficiari della misura (si veda il grafico): nel meridione vive il 45% dei nuclei in povertà assoluta, ma il 68% delle famiglie che percepiscono l’Adi (il 66% col Rdc); al contrario al Nord si trova il 41% delle famiglie povere assolute, ma solo il 15% delle famiglie che ricevono l’Adi (era il 19% con il Rdc). Peggio è andata agli stranieri: la riduzione di beneficiari rispetto al Rdc è stata del -40% contro il -35% per i nuclei italiani e questo nonostante, grazie a una sentenza europea, sia stato ridotto da 10 a 5 anni il requisito della residenza in Italia.

La famiglia in chiaroscuro

Il "peccato originale", per intenderci, della riforma del Governo Meloni è l’abbandono del criterio dell’universalità dei sostegni contro la povertà. Nel 2017 eravamo stati l’ultimo Paese europeo (insieme alla Grecia) a introdurre una misura nazionale contro la povertà: il Reddito di inclusione, sostituito poi dal Reddito di cittadinanza. Nel 2024 con l’attivazione dell’Adi siamo tornati ad essere l’unico Paese europeo senza una misura di reddito minimo rivolta a tutti i poveri in quanto tali e non solo ad alcune categorie, come le famiglie con figli o senza componenti occupabili. «L’intenzione di riservare alle famiglie con figli una protezione particolare, in ragione della loro specificità, è condivisibile – si legge nel rapporto – ma non può ledere il diritto di ognuno a ricevere un aiuto da parte dello Stato, indipendentemente da caratteristiche anagrafiche, familiari o di altro tipo».

Le domande senza risposta

E così si arriva al primo degli interrogativi su cui la Caritas intende confrontarsi con il Governo e il mondo politico: «Le politiche per i poveri sono politiche per la famiglia?». Bene, infatti, tutelare maggiormente i nuclei ma non escludendo gli altri cittadini: «a fronte della riduzione delle risorse – dice la Caritas – si sarebbe potuto escludere chi povero non è invece di chi, semplicemente non ha figli minori». La seconda questione riguarda «come costruire opportunità di libertà» per i poveri. Qui si riconosce che l’Adi «fa passi avanti nel disegno dei servizi rispetto al Rdc», con un maggior accompagnamento dei bisognosi da parte degli assistenti sociali. Ma poi alla prova dei fatti e delle ricerche, la Caritas rileva ancora forti ostacoli all’inclusione sia lavorativa sia sociale, a causa principalmente di burocrazia e fragilità dei servizi locali. E così ai poveri è di fatto negata la libertà di plasmare il proprio destino, secondo desideri e aspirazioni.

Ridotti di nuovo a paracadute

L’ultimo interrogativo riguarda proprio il ruolo delle Caritas. La riduzione dell’intervento pubblico, infatti, ha generato un aumento consistente delle richieste di aiuto presso le strutture diocesane. E le Caritas sono tornate a rappresentare l’estremo paracadute che scongiura il precipitare delle persone, assicurando loro almeno i beni di prima necessità: pacchi alimentari, pagamento delle bollette, dell’affitto, l’acquisto del materiale scolastico per i figli. Impedendo così alle stesse Caritas di svolgere il ruolo di accompagnamento delle persone verso l’autonomia, di fungere da «trampolino di lancio». Schiacciati sulla protezione emergenziale, non si riesce a fare promozione. Ma è questa una «sana sussidiarietà»?
Nei mesi scorsi, il Governo ha sottolineato come la nuova struttura dell’assistenza ai bisognosi abbia «funzionato bene» per aver protetto (con maggiori risorse, grazie anche alla cumulabilità dell’Assegno per i figli) i soggetti considerati più deboli: famiglie con minori e disabili. E soprattutto per aver stimolato i cosiddetti «occupabili» a tornare a cercare lavoro, come testimonierebbe anche la crescita dell’occupazione nell’ultimo biennio. Su quest’ultimo punto il Rapporto Caritas non interviene, ma l’alta incidenza di occupati tra i poveri e gli assistiti dalle parrocchie dice che l’equazione - taglio del sussidio, ricerca di un lavoro, uscita dalla povertà - non è così semplice e lineare.

Il dialogo con il Governo

La viceministra del Lavoro e delle Politiche sociali, Maria Teresa Bellucci, intervenendo mercoledì alla presentazione del Rapporto, ha rivendicato l’impegno del Governo in termini di interventi e risorse impegnate per «costruire un sistema duraturo di giustizia sociale, in cui i diritti siano assicurati, una volta chiariti i doveri di ciascuno». Ma ha definitivamente chiuso all’ipotesi di un ritorno all’universalità delle politiche di intervento contro la povertà, sottolineando che «il tempo dell’assistenzialismo è finito, non torneremo ai sussidi generalizzati che portavano solo clientelismo politico e non all’autonomia delle persone in povertà». La viceministra, però, ha parlato anche di un «cantiere aperto» sull’Adi e sulle altre riforme, assicurando la disponibilità a correggere eventuali errori o a studiare insieme migliorie da apportare.
Una disponibilità al confronto sull’esistente e alla condivisione delle riforme future che il direttore della Caritas nazionale, don Marco Pagniello, ha colto al volo per portare non solo le istanze che vengono dalle 220 Caritas diocesane sparse in tutt’Italia, ma soprattutto «le aspirazioni delle persone in povertà. Noi stiamo dalla loro parte – ha chiarito – che non vuol dire solo intervenire per rispondere ai loro bisogni emergenziali, ma partire dalla valorizzazione delle loro risorse per accompagnarli in uno sviluppo integrale della persona».

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