martedì 2 febbraio 2010
Parla Stefano Zamagni: il peggio è alle spalle e in molti hanno capito che la speculazione non paga. In economia servono coesione sociale e solidarietà.
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Sono sempre i giganti del pensiero, sostiene Stefano Zamagni, a trovare le immagini migliori per descrivere le pagine della storia. Anche quelle più amare. Per questo, chiedendo all’economista bolognese che cosa ci abbia insegnato la più grande crisi globale degli ultimi sessant’anni – crisi della finanza, dell’industria e del lavoro – risponde a bruciapelo citando una delle ultime frasi di don Abbondio nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: “È stata un grande flagello questa peste, ma è stata anche una scopa; ha spazzato via certi soggetti che, figlioli miei, non so come ce ne liberavamo più”.Professore, possiamo tirare almeno un piccolo sospiro di sollievo: il peggio, probabilmente, è già alle spalle. Sui mercati è tornata una certa stabilità e l’economia, in generale, mostra timidi segnali di ripresa. Molte persone hanno perso però il lavoro e quello della disoccupazione è il fardello più grave che la crisi economica ci ha lasciato in eredità. Come sta uscendo l’Italia da questa situazione?Con la consapevolezza che alla fine avevamo ragione noi. Noi italiani, intendo. Quando in anni recenti soffiava forte il vento della deindustrializzazione, non abbiamo rinunciato a costruire il nostro Pil, la nostra ricchezza complessiva, sull’industria e la manifattura. Non abbiamo cioè abboccato all’amo della finanza facile e mantenuto un variegato sistema produttivo. Al contrario di Gran Bretagna, Spagna e Irlanda, ad esempio, che non a caso stanno messe molto peggio di noi. Questi Paesi testimoniano oggi quello a cui si va incontro scegliendo la speculazione, immobiliare o finanziaria che sia. La considera la lezione più importante della “peste” finanziaria?Insieme a un secondo aspetto. La crisi ci ha insegnato anche che la coesione sociale e la solidarietà non sono un afflato moralistico di pertinenza della Chiesa cattolica o di altri soggetti attenti all’uomo in sé e non solo al consumatore. Il nostro sistema economico e il suo modello di Welfare state, di ammortizzatori sociali, uniti a iniziative plurime di sostegno alle famiglie in difficoltà – non ultimo il fondo di sostegno lanciato proprio dalla Conferenza episcopale in collaborazione con il sistema bancario – sono riusciti a far sì che l’Italia non abbia avuto ancora un’impresa fallita o una sola banca saltata per effetto della crisi. Anche per questo sarà uno tra i primi Paesi a uscire a testa alta dalla recessione. Dove sono finiti tutti gli economisti che non si erano accorti di quanto stava accadendo sui mercati e delle devastanti conseguenze su economia reale e lavoro?La terza lezione, per restare al nostro tema, è proprio per gli economisti. Per il mondo accademico: la crisi è figlia di errori tecnici molto gravi. Fondamentalmente di un modello sbagliato cha ha dominato nella cultura anglosassone per tre due secoli abbondanti: quello dell’homo economicus, le cui principali caratteristiche, secondo la dottrina classica, sono la razionalità e la cura esclusiva dei suoi propri interessi individuali. Un uomo ontologicamente egoista, quindi. La falsità di questa visione su cui sono stati costruiti i modelli economici fa sì che noi oggi dobbiamo raccoglierne i cocci. Ecco perché questa crisi può essere salutare nella misura in cui, come diceva don Abbondio, “si porta via certi soggetti….”, ovvero la falsità e l’irresponsabilità di questa visione su cui si basa fra l’altro la legittimità della speculazione finanziaria. L’uomo a cui pensa la Dottrina sociale della Chiesa è ben altro. E ben altra è la visione economica: quella dell’economia civile, un’invenzione italiana, essendo nata nel Settecento a Napoli.Che differenza c'è fra l'economia politica, il paradigma ancora oggi dominante, e l'economia civile?L'economia politica si fonda su due capisaldi: il principio dello scambio di equivalenti, da cui deriva l'efficienza, e il principio di redistribuzione, per garantire l'equità. L'economia civile, a questi, aggiunge un terzo principio, quello che fa la differenza: la reciprocità. Serve a realizzare la fraternità. L'economia civile include quindi quella politica ma non viceversa. E il pensiero economico italiano – per fare un nome: Luigi Einaudi – ha sempre mantenuto quest'impostazione, a differenza della tradizione anglosassone guidata dal motto "business is business". Al paradigma dell’homo economicus contrappone quindi quello dell’homo reciprocans, lo stesso uomo a cui si riferisce l’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI.Il nostro sistema di Welfare state ha in mente questo modello di uomo?In sostanza sì, anche se ci sono molte cose da migliorare. Coinvolgendo ad esempio sempre di più tutto il mondo del non profit, includendolo nel modello. In questo modo avremmo una traduzione più appropriata del termine Welfare: non semplicemente “benessere” ma “ben-essere”, “Well being”, un’accezione più completa che include anche le altre dimensioni della socialità e non solo quella economica.
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