venerdì 10 agosto 2018
S'intitola «L'anima di Fabrizio» il reportage realizzato da Marco Mignano con alcuni senza dimora del capoluogo lombardo. Dalle sue immagini un aiuto alle attività di un'associazione, Mia onlus
Milano, una fotogafia di Marco Mignano per il progetto «L'anima di Fabrizio»

Milano, una fotogafia di Marco Mignano per il progetto «L'anima di Fabrizio»

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Fabrizio non ha una casa. Non ha un lavoro. Non ha un reddito. Non ha famiglia. Li aveva: ha perso tutto. E da 15 anni vive sulle strade di Milano. Come tante altre persone senza dimora. Cosa gli resta? Una storia, un volto, un nome. Un’anima. Invisibili e sconosciuti alla folla dei milanesi «con dimora», tanto abituati alla presenza dei «barboni» nel quotidiano scenario urbano, da non accorgersene più, finché non succede qualcosa che turbi l’ordinaria, reciproca indifferenza. Nel caso di Fabrizio, il «qualcosa» che lo ha strappato alla condizione di invisibile è, in realtà, un «qualcuno»: Marco Mignano, fotoreporter. Che ha conosciuto Fabrizio partecipando alle uscite serali dell’unità di strada di Mia-Milano in Azione onlus (associazione che dal 2012 assiste persone in stato di emarginazione grave: www.milanoinazione.org).
Una relazione, una fiducia, un’amicizia hanno messo radici. E Fabrizio ha detto sì al progetto di Marco: documentare e raccontare la vita ordinaria dei senza dimora di Milano. Così è nata la mostra fotografica «L’anima di Fabrizio». Le immagini, tutte in bianco e nero, sono esposte fino a sabato 11 agosto allo spazio «Secondopiano» della libreria Hoepli di Milano. Chi non riuscisse a recarsi in via Hoepli 5, le troverà tutte pubblicate in http://mignanophotography.com. E chi volesse acquistare una stampa, sappia che il 50% del ricavato verrà devoluto a Mia onlus.

Mignano: «Prima l'incontro con la persona, poi la foto»

«Sono nato a Urbino, ho 29 anni, vivo a Milano ma viaggio tantissimo. Mi muove il desiderio di raccontare, in particolare, la vita e le storie di chi sta ai margini, come i nomadi in Mongolia o gli sherpa del Nepal – spiega Marco Mignano ad Avvenire –. Quando torno, ogni volta, vedo sulle nostre strade tante persone sole e in difficoltà. Così è nata in me l’idea di dedicare loro un reportage: ma non con foto rubate, "mordi e fuggi", di cui è pieno il web. Volevo incontrare volto a volto queste persone, conoscerle, condividere un po' della loro vita, stare con loro, fianco a fianco, e fotografarle: con il loro consenso. Rispettandone la dignità. Ho parlato del progetto con Mia onlus. E per due mesi e mezzo, la scorsa primavera, sono uscito, quasi ogni settimana, con la loro unità di strada. Senza macchina fotografica. Trovare le persone giuste non è stato facile: chi è ormai "fuori di testa", chi invece ha vergogna e teme di essere riconosciuto da familiari e amici. Fabrizio ha detto sì. Ho passato un’intera giornata con lui, dalle 7 del mattino fino a sera. Con la macchina fotografica, stavolta. E ho potuto condividere i momenti di solitudine, tristezza, fatica, come quelli di felicità che riesce a vivere anche chi non possiede nulla».
Un giorno intero a fare foto. «Con Fabrizio e i suoi amici che mi incoraggiavano a scattare – riprende Marco –. Non capita tutti i giorni di avere un fotografo al tuo servizio, e loro ne erano ben consapevoli...». Un giorno per gettare il seme di nuovi incontri: «Quando posso, vado a trovare Fabrizio. Sto con lui, la sua compagnia mi rasserena e mi fa percepire come tanti pensieri, preoccupazioni e rabbie non meritano tutto il peso che diamo loro».

Il presidente di Mia onlus: «Quante domande, in queste immagini»

«Questo progetto fotografico nasce da un’idea di Marco che la nostra associazione ha accolto con convinzione – incalza il presidente di Mia onlus, Luca Sechi –. La sua idea di documentare la giornata tipo di una persona senza dimora, di portarne alla luce la quotidianità, è stata arricchente anche per noi: con l’unità di strada siamo abituati a incontrare queste persone solo a sera. Così è nato un reportage il cui valore sta anche nel fatto che fa emergere domande più di quanto non offra risposte. In alcune fotografie vediamo persone felici. In altre si fa incontro a chi le osserva una solitudine che provoca e ferisce: penso all’immagine di Fabrizio che raccoglie le sue coperte e si avvia, lungo il marciapiede, nel luogo in cui passerà la notte. Nei momenti di felicità, a volte compare il tetrapak di vino. È felicità vera, quella che vivono? O è un modo per sopravvivere alla realtà, alla sofferenza per aver perso il lavoro, la famiglia, la casa, la vita di prima? Quando parli con loro, non di rado – penso soprattutto agli "irriducibili" – ti dicono di stare in strada per scelta, di essere contenti così, di non sentirsi affatto dei falliti. Ma quando la relazione di fiducia che hai instaurato con loro li fa sentire accolti e non giudicati, chi fin lì ha magari fatto la parte del clochard per vocazione, finalmente, si toglie la maschera svelando il volto e il cuore della sua sofferenza».

«La sfida? Superare la logica dell’emergenza»

«Come associazione, con i nostri cinquanta volontari e gli attuali due dipendenti, che vengono dal mondo della strada, non ci limitiamo ad assistere le persone senza dimora nelle necessità della vita quotidiana, ma cerchiamo di aiutarle a "superare" la strada, a costruire percorsi di autonomia, a ritrovare lavoro e casa – prosegue il presidente –. Per questo, ad esempio, fra il 2014 e il 2016 abbiamo gestito un orto di tredicimila metri quadrati a Bollate, nel Parco delle Groane, dove imparare a lavorare la terra e vendere i suoi prodotti, mentre di recente – grazie al contributo della Banca popolare di Milano e col supporto tecnico del Capac, il Politecnico del commercio e del turismo – abbiamo avviato corsi di formazione nell’ambito della ristorazione»
«Alla radice di tutto – scandisce Sechi – è decisivo l’incontro con le persone, per capire quali problemi li hanno portati sulla strada e quali risorse mobilitare per ripartire e riprendere in mano la propria vita. Per questo sarebbe importante avere, nelle unità di strada come la nostra, ad affiancare l’opera dei volontari, professionisti esperti, ad esempio psicologi specializzati nell’area delle dipendenze. E non penso solo all’alcol ma alla ludopatia, che porta sempre più gente in strada. A volte incontriamo situazioni di sofferenza psichica che richiedono professionalità adeguate».
Ma c’è un altro punto che sta a cuore al presidente di Mia onlus. «La grande sfida è superare la logica dell’emergenza. Nelle strutture aperte d’inverno, dove non sempre è facile portare i senza dimora, trovi educatori e psicologi con i quali è possibile iniziare un percorso. Ma quando finisce l’emergenza freddo e la struttura chiude, tu torni sulla strada e il percorso avviato si interrompe. Servizi e interventi, invece, dovrebbero proseguire tutto l’anno per aprire davvero prospettive di autonomia e di inserimento sociale».

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