sabato 18 dicembre 2010
Per la prima volta la testimonianza diretta di un familiare conferma il traffico orrendo di esseri umani nel deserto egiziano, svelando ulteriori particolari sugli obiettivi dei criminali.
- Angoscia per i 250 prigionieri. Capobanda in contatto con Hamas
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Il testimone da quasi un mese non riesce più a dormire per la disperazione. Nella lingua con la quale comunichiamo, un misto di i­taliano e inglese, mi parla di « big, big problem »,un problema grandissimo, trovare in fretta i soldi per liberare il cugino, uno dei 250 eritrei « jailed in Sinai», prigionieri nel Sinai. Uno dei 250 ostaggi dei quali, secondo il go­verno del Cairo, non c’è traccia. L’accordo per poter effettuare la con­versazione è non rivelare il vero no­me del testimone, un rifugiato eri­treo in possesso di regolare permes­so di asilo che vive e lavora da anni a Genova. Non vuo­le infatti far correre rischi ai parenti nel­la sua terra, giù nel Corno d’Africa. Lo chiameremo E­zechiele.Circa quat­tro settimane fa ha ricevuto una telefo­nata dal cugino R., 25 anni, che era scappato attraverso il Sahara in Libia nel 2009. Da lì progetta­va di raggiungere l’I­talia e chiedere asi­lo. Ma dopo giugno non è stato più possibile raggiungere le coste della Penisola via mare, anche chi avreb­be diritto a venire accolto come ri­fugiato viene respinto verso Tripoli, il cui governo non distingue tra irre­golari e migranti in fuga dall’op­pressione politica. Questo ha cam­biato piani e rotte di molti dispera­ti, i quali si sono orientati verso la frontiera del Sinai. «R. mi aveva comunicato – raccon­ta Ezechiele – a settembre che, con altri compagni di viaggio, circa una ottantina tra uomini e donne, pro­gettava di fuggire da Tripoli al Cairo e poi da lì raggiungere, attraverso il confine del Sinai, lo stato d’Israele. In Libia era inutile restare, rischia­vano di venire nuovamente incarce­rati, come a giugno». Ma quel viaggio, come ci ha raccontato dal 24 no­vembre il sacerdote cattolico eritreo Mosè Zerai, è diventato una trappo­la infernale. «ll gruppo di R. – conferma Ezechie­le – è finito nelle mani di una banda di trafficanti. Quasi un mese fa mi ha chiamato dicendo che aveva pa­gato duemila dollari per il viaggio, ma nel deserto è stato abbandona­to e derubato di tutto dai banditi. Gli hanno lasciato solo il telefono. Poi mi ha passato uno dei rapitori, che mi ha chiesto un riscatto di ottomi­la dollari se volevo rivedere vivo mio cugino». Da allora le telefonate so­no diventate uno stillicidio quasi quotidiano. «Mi fanno uno squillo e devo ri­chiamare il numero sul display subito dopo. Risponde R., che mi dice di non potersi muovere perché è in catene e che viene torturato. Mi passa un carce­riere. È un arabo, mi ripete che devo tro­vare il denaro e che il tempo sta scaden­do. Non so quanti siano i prigionieri. Secondo mio cugino, più di 200». Le modalità di pagamento sono pre­cise, i soldi andranno mandati via money transfer a una persona che verrà indicata dalla gang. «Ma io quei soldi non li ho proprio – conclude con voce rassegnata Eze­chiele – e non so come trovarli. So­no disperato. L’ho detto anche a R. e lui mi ha dato il numero di telefono di Mosè Zerai, il prete cattolico, di­cendomi che lui sta cercando di sal­vare gli ostaggi». Un’altra testimonianza che confer­ma la tragedia in corso in queste o­re nel Sinai, dove un racket interna­zionale di trafficanti di esseri uma­ni può rapire, torturare e violentare centinaia di persone indisturbato. Un’altra testimonianza che chiede una risposta al governo del Cairo. Un giovane eritreo prigioniero
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