domenica 24 luglio 2011
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Rettore Ornaghi, molto induce a credere che siamo all'alba di una fase nuova nella nostra vicenda democratica. La politica si mostra, ed è percepita, "distinta e distante" dal Paese reale e l'opinione pubblica non appare più disposta ad accettarlo: la primavera elettoral–referendaria – percorsa in lungo e in largo dalla "macchina delle sberle" – ha lasciato segni indelebili...È vero, questa politica appare sempre più distante dalla vita della gente. È una politica che un numero crescente di cittadini avverte come paralizzata, incapace di bloccare le tendenze all'esasperata conflittualità e alla progressiva disarticolazione del sistema politico. Ogni giorno di più, invece, avremmo bisogno di una proposta e di un'azione in grado di invertire questi trend distruttivi, riuscendo a mostrare una credibile prospettiva di positivo cambiamento del Paese. Certo, però, che l'attuale situazione non è destinata a durare in perpetuo...
 
Lei evoca uno sbocco positivo. Vede anche in quale direzione?Mi rendo semplicemente conto che alla fine di questo passaggio ci troveremo necessariamente in un diverso scenario, dopo una serie di discontinuità annunciatissime eppure ancora incalcolabili, e dopo una catena di scomposizioni–ricomposizioni di tipo partitico, per ora aleatorie e anch'esse di segno ambivalente come le prime. Con ogni probabilità, per cominciare a uscire dall'odierna condizione di politica "a tentoni", è indispensabile che alcuni processi di riaggregazione del ceto politico si precisino nelle loro finalità e si diano tappe ravvicinate.
 
La debolezza del quadro politico nazionale è evidente, e ha incentivato anche un pesante attacco speculativo contro l'Italia. In questo frangente Governo e Parlamento, stimolati dal Quirinale, hanno saputo rispondere con efficacia, trovando modi per "parlare" con i signori dei mercati, ma non per convincerli del tutto, e soprattutto non per convincere l'opinione pubblica interna. La manovra triennale appena varata funziona, insomma, come segnale di rigore al cospetto dell'Europa e del mondo, ma non come strumento per stimolare la crescita e offrire motivazioni ai cittadini chiamati a sopportare impoverimento e sacrifici.Proprio la primavera elettorale–referendaria ci ha mostrato quanto sia oggettivamente debole una politica che sembra procedere, come ho detto poco fa, "a tentoni". L'attacco economico–internazionale all'Italia ne è il logico corollario. E, nonostante la pronta reazione delle nostre istituzioni, il rischio non è affatto scongiurato. I mercati, se sono colpiti in modo favorevole dalla risposta offerta tempestivamente da un Paese in grave difficoltà, ancora di più lo sono dalla qualità della risposta, dalla sua capacità di promuovere durevoli condizioni che correggano squilibri e distorsioni economico–sociali, senza produrne di nuove e magari più pesanti. I potentati dei mercati transnazionali sono abituati a trattare con il dovuto riguardo la politica interna di un Paese solo a precise condizioni: non basta nemmeno che essa sia stabile, occorre che sia anche autorevole nei confronti dell'intera società.E non si può certo dire che in questa fase in Italia si guardi con ammirazione a chi governa e fa le leggi.
Già, e abbiamo invece bisogno, oggi assai più di qualche decennio fa, di una politica stimata ed esemplare. Esemplare nei fini che si propone, nei mezzi con cui li persegue, nella gestione degli inevitabili costi che legittimamente ogni sistema politico chiede alla società di sopportare, per poter vivere e funzionare al meglio. L'esemplarità della politica – lo dico cercando di schivare ogni ombra di retorica – è la condizione stessa della sua autorevolezza. È al cuore, anzi, di quella specifica legittimazione – sia a rappresentare, sia a governare – su cui si fondano le democrazie.Nessuno ormai si nasconde più che è entrata in crisi l'idea stessa di rappresentanza...E nessuno di noi si sognerebbe di farsi rappresentare, nel disbrigo di un affare privato e importante, da persone dalle incerte competenze professionali e da altrettanto oscillanti caratteristiche morali e umane. Questo è tanto più vero nel campo delle questioni che sentiamo come "pubbliche". Se chi ha in mano il potere – da quello locale a quello centrale, di governo o di opposizione – non è stimato e considerato esemplare, inevitabilmente e rapidamente tracolla anche l'esemplarità della politica. E, con essa, rischia di spegnersi appunto la rappresentatività non già di questo o quel partito, bensì di pressoché tutto il ceto politico attuale.Politici distinti e distanti, non rappresentativi, puniti dall'elettorato...Torniamo, di fatto, alla questione iniziale: la distanza dell'intera politica di casa nostra dal Paese reale. Una distanza che solo precariamente si raccorcia al mutare degli esiti delle competizioni elettorali (del resto, ogni "macchina delle sberle" ha i suoi limiti di rendimento e conosce l'usura...). Personalmente, sono dell'opinione che proprio questa distanza sia, fra i tanti costi reali o presunti della politica, quello ormai più alto e meno sostenibile dal Paese.Il problema vero è questo bipolarismo malato. "Furioso", dico io, perché tutto giocato sulla contrapposizione pro o contro Silvio Berlusconi, e anche per tale motivo inconcludente sul piano delle riforme di sistema e dell'azione di governo per dare spinta a un Paese in declino di speranza (nel progettare, nell'intraprendere, nel mettere al mondo figli).Questo nostro bipolarismo "furioso" è certamente cresciuto male, perché è nato male. E il susseguirsi di leggi o riformette elettorali, invece di rinvigorirlo, ne ha peggiorato le condizioni di salute. Ma è da buttare o da ristrutturare?Accademicamente continuo a guardare con maggior simpatia a un sistema bipolare. Sono però convinto che gli effetti benefici del bipolarismo – soprattutto se la società italiana, come le altre società europee, diventerà ancor più "plurale" di oggi – si potranno dispiegare solo in presenza di due partiti forti o di due, altrettanto forti e omogenei, aggregati di partiti. Voglio dire che questi soggetti non possono e non potranno essere semplicemente e umoralmente aggreganti (magari solo in occasione delle elezioni), ma devono e dovranno ancor più essere radicati da un punto di vista sociale e territoriale.
Auspica, dunque, un ruolo dei partiti di nuovo cruciale per avvicinare palazzo e gente.La dura lezione che i fatti della politica ci impartiscono pressoché quotidianamente, conferma che nel nostro Paese la "questione dei partiti", della selezione della loro classe dirigente e della loro leadership, precede per importanza e urgenza quella della migliore funzionalità, astratta o reale, del bipolarismo rispetto a un possibile pluripolarismo.
Inevitabile a questo punto toccare il tasto dolente della legge elettorale. Lungo il deludente itinerario di quella sterminata transizione che viene definita Seconda Repubblica, nonostante e anzi a causa di un certo andazzo plebiscitario (primarie, gazebo e predellini), i cittadini si sono ritrovati espropriati del potere di scegliere davvero i loro rappresentanti in Parlamento. I gruppi parlamentari sono diventati "club" in cui si entra per cooptazione. I partiti forti e veri, quelli di cui parla lei, sono un'altra cosa.Un tasto dolente, sì. Ma bisogna essere lucidi e freddi nel batterlo. Si discutono varie ipotesi e si evoca un ritorno a un sistema di voto a base proporzionale. E allora io ricordo che un sistema elettorale che preveda una precisa e significativa quota proporzionale né preclude il bipolarismo né porta con sé il vizio congenito dell'instabilità di governo. Anch'io ritengo che un "nuovo" sistema elettorale costituirà uno dei primi varchi, stretti e tuttavia obbligati, da aprire per giungere a quei nuovi scenari di politica di cui si diceva all'inizio del nostro ragionamento. E sono persuaso che esso debba ridare fiato alla rappresentatività. Il rischio è che altrimenti gli attuali agglomerati partitici si trasformino ulteriormente in una "galassia di club", in cordate sempre fluttuanti di interessi. Il nuovo sistema elettorale dovrà aiutarci a intravedere qual è il differente ruolo di rappresentanza e di governo che, per il bene del Paese, intenderanno svolgere delle rinnovate strutture e organizzazioni politiche. E per esse non è storicamente pensabile altro nome se non quello di "partito".Questo ragionamento ci conduce al ruolo dei cattolici. Attivissimi e significativi sul piano sociale e pre–politico, sono stati invitati dal Papa e dai nostri vescovi a dare di più e di meglio anche nella sfera propriamente politica. Penso che anche la questione delle forme della presenza politica dei cattolici italiani andrebbe impostata con realismo, senza nostalgie o retoriche fughe in avanti, e in termini concreti e nuovi. Proprio a ciò ci sollecitano i reiterati richiami del Santo Padre Benedetto XVI e, nella sua scia, del presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco. È pensabile un "nuovo modello di sviluppo" che non abbia a suo motore la politica? Ed è pensabile che rispetto a una tale politica risultino latitanti, facilmente emarginabili, irrilevanti, non tanto singole personalità cattoliche, quanto i cattolici italiani come presenza vitale e immediatamente riconoscibile, perché efficacemente organizzata e altrettanto efficacemente in azione? I termini nuovi della questione, a me pare, stanno appunto nella "novità" con cui organizzare ed efficacemente far agire e interagire, in modo sempre più armonico, ciò che in gran parte già esiste.C'è chi già evoca il ritorno della "balena bianca". Come se non fosse possibile una collaborazione feconda tra laici e cattolici sulla base di grandi e condivisibili valori fondanti, quelli che definiamo "non negoziabili".Ripeto: nostalgie e retoriche fughe in avanti non servono a molto. Dobbiamo piuttosto partire dalla consapevole registrazione del fatto che – rispetto a vecchie o a recentissime "appartenenze", "parti" e "case" politiche, ideologiche e culturali – noi cattolici abbiamo ancora il vantaggio di disporre in misura maggiore di quelle risorse senza le quali nessuna "appartenenza" o "parte" o "casa" politica può diventare credibilmente protagonista nel perseguimento del bene comune. Disponiamo cioè di valori autentici. E io noto che questi non solo fanno sentire i cattolici fra loro assai più uniti di quanto qualche osservatore parziale vorrebbe far credere, ma che sempre più richiamano anche l'attenzione e la sensibilità di chi cattolico non si sente o non è. Conserviamo, per di più, l'attitudine a saper cercare e individuare, sotto la scorza dei cambiamenti di breve periodo, le trasformazioni più profonde, durature e significative.Ma la gente ha bisogno di volti, di storie e di competenze alle quali guardare. Nelle realtà animate dai cattolici indubbiamente ce ne sono. Mi piace dire che sono l'unica "fabbrica permanente" di cittadini con il senso di un "bene comune" più importante di qualunque spirito di fazione...Lo penso anch'io. E penso anche che ci siano leader e rappresentanti politici di provata competenza. So, poi, che abbiamo rimesso in moto – particolarmente tra le associazioni e i movimenti – meccanismi di formazione giovanile della leadership. Ma soprattutto so che disponiamo del patrimonio della rappresentanza e della rappresentatività sociale. Ne disponiamo proprio nei campi – dal lavoro e dall'assistenza alla famiglia, all'educazione e alla cura del benessere futuro dei figli – che, a fianco dei valori fondanti, già oggi costituiscono le grandi questioni della politica. Questioni in grado di dare slancio a progetti di rinnovato sviluppo; o invece foriere, se non adeguatamente affrontate, di ulteriori, insanabili fratture. C'è un patrimonio da investire. Lei vede anche le condizioni e la volontà per farlo?Io credo che in questa fase occorre guardare con attenzione davvero speciale a quel prezioso "giacimento" di rappresentanze sociali che è il mondo cattolico. Saranno queste rappresentanze, infatti, ad alimentare e sostenere in modo non estemporaneo il partito o le aggregazioni partitiche, a cui toccherà di dar corpo alla volontà dei cattolici di essere un movimento non di second'ordine nella politica italiana. Una volontà che – per quel che vedo e colgo nel dibattito pubblico e nell'effervescenza del laicato cattolico – già adesso guida la ricerca dei varchi per giungere, senza prezzi intollerabili per il Paese, a quegli scenari politico–partitici cui gli attuali dovranno lasciare il posto.
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