giovedì 1 febbraio 2018
L’operazione militare lanciata da Ankara ha anche lo scopo di far rientrare a Damasco milioni di profughi, alleggerendo la pressione sulla Mezzaluna e costringendo i nemici giurati e le loro milizie
Respinti dalla Turchia verso la Siria: l'ultima arma di Erdogan
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Dietro l’operazione militare turca in Siria chiamata Zeytin Dali, ramoscello d’ulivo, c’è una vera e propria strategia di ricollocazione in chiave anti-curda dei 3,5 milioni di migranti che la Mezzaluna ospita sul suo territorio ormai dall’inizio della crisi. Che l’invasione dei territori a maggioranza curda nel nord della Siria abbia anche una valenza demografica, ad Ankara, lo hanno capito tutti, in testa il leader dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, che martedì ha chiesto chiarimenti e domandato le reali intenzioni dietro questo controesodo.

Nel Paese, da oltre due anni, economisti e analisti hanno evidenziato come l’immigrazione massiccia di siriani abbia un costo importante per le casse dello Stato e abbia provocato non pochi problemi di ordine pubblico, soprattutto nel sud-est del Paese, dove i migranti sono maggiormente dislocati, e sulla costa egea, dalla quale partivano (in molti lo fanno tutt’ora) per cercare la salvezza in Unione Europea. Dei 3,5 milioni ospitati dalla Turchia, solo 300mila trovano protezione nei centri di accoglienza. I più fortunati sono riusciti a rifarsi una vita nella Mezzaluna e alcune migliaia hanno anche ottenuto la cittadinanza, con tutte le polemiche del caso sulla tempistica e l’opportunità elettorale da parte del presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan.

Ma la maggior parte vive di espedienti. I più critici nei confronti del capo dello Stato ritengono che, per il numero uno di Ankara, migliaia di siriani sul territorio turco adesso possano avere un’altra funzione. All’inizio della crisi, la Turchia era stata accusata di avere accolto i migranti che scappavano dalla guerra civile sul suo territorio per favorire una reazione della coalizione internazionale contro il presidente di Damasco, Bashar al-Assad, un tempo amico di Erdogan, e ora alleato indesiderato per non dispiacere a Vladimir Putin.

Quando ha capito che i suoi sforzi non avrebbero prodotto il risultato sperato, il capo di Stato turco, nel marzo 2016, ha stretto con l’Unione europea l’ormai celebre accordo che aveva come obiettivo quello di bloccare le partenze dalla costa turca verso le isole greche e il passaggio verso la rotta balcanica via terra. La chiusura da parte della Ue alla riapertura dei negoziati, il possibile accordo sui destini della Siria, ha convinto Erdogan a favorire il rientro, più o meno spontaneo, dei migranti in Siria.

Dietro la motivazione ufficiale, quella umanitaria e l’annuncio della crisi (quasi) risolta, c’è la speranza che i siriani di rientro si stanzino nelle zone a maggioranza curda, quelle stabilizzate, andando così a impattare direttamente sulla composizione demografiche di zone dove, storicamente, i curdi sono sempre stati una componente determinante. I numeri confermano questa lettura. Da settembre, almeno 5.000 siriani hanno varcato il confine di Reyanli, all’estrema punta sud-orientale della Turchia, per fare ritorno nella madre patria.

Secondo i quotidiani della Mezzaluna, a Jarablus sono già tornate 50mila persone e l’obiettivo del sindaco di Gaziantep, che da sola ospita circa mezzo milione di rifugiati, è favorire la partenza di altre 100mila persone nel medio termine. Lo scorso 24 gennaio, durante una riunione nel palazzo presidenziale, Erdogan ha detto: «Dobbiamo cacciare i terroristi (i curdi dello Ypg, ndr) da Afrin e farla tornare ai loro legittimi proprietari. Non possiamo ospitarli per sempre in tende. Ad Afrin il 55% sono arabi, il 35% curdi e il resto turkmeni».

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