venerdì 15 febbraio 2019
Sana Cheema, 25 anni, era stata portata via da Brescia per costringerla a nozze combinate. Al suo rifiuto è stata strangolata. Ma per i giudici pakistani «non ci sono prove certe»: assolti i familiari
Sana Cheema in un'immagine del suo profilo Instagram (Ansa)

Sana Cheema in un'immagine del suo profilo Instagram (Ansa)

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Per mancanza di prove e di testimoni, il tribunale distrettuale di Gujrat, città della provincia pachistana del Punjab, ha restituito la libertà al padre, allo zio e al fratello accusati dell’omicidio di Sana Cheema, la 25enne cittadina italiana di origini pachistane probabilmente vittima di un “delitto d’onore”.

LA VICENDA DI SANA - I FATTI
«Ha l’osso del collo rotto» aveva stabilito l’autopsia sul suo corpo, ma per i giudici, che fecero riesumare il coadavere sepolto in tutta fretta dalla famiglia della giovane, nessuno degli undici indagati, quattro parenti stretti e altre sette persone, può essere condannato per omicidio. Immediato il risalto dato ieri dai mezzi d’informazione pachistani all’assoluzione e alla vicenda, ma le reazioni più forti sono arrivate dall’Italia. «Che vergogna! Se questa è “giustizia islamica” c’è da aver paura. Una preghiera per Sana. Scriverò al mio collega, il ministro dell’Interno pachistano, per esprimere il rammarico del popolo italiano», ha commentato il ministro dell’Interno, Matteo Salvini.

La storia di Sana aveva fatto scalpore nell’aprile scorso ed era stata portata alla luce dopo mesi di silenzio dagli amici di Brescia, dove viveva, a due mesi dall’arrivo in Pakistan con il padre. Erano stati proprio le richieste di chiarimento della comunità pachistana bresciana ad aprire il caso e a costringere le autorità pachistane a intervenire perché si chiarissero le circostanze del decesso della ragazza. «Siamo molto rammaricati perché non ci aspettavamo una sentenza così» è stato il primo commento di Jabran Fazal, portavoce della comunità pakistana a Brescia. «In Pakistan c’è la pena di morte per l’omicidio e probabilmente non è stato individuato l’esecutore materiale del delitto di Sana» ha poi spiegato.

Sana non voleva un matrimonio combinato e sognava un futuro in Italia, con un ragazzo conosciuto a Brescia, nonostante l’opposizione della famiglia. I sospetti degli inquirenti pachistani si erano subito appuntati sui familiari, in una realtà dove la ritorsione per comportamenti non tollerati delle figlie è spesso affidata ai parenti maschi. Dopo la morte, avvenuta il 19 aprile a poche ore dalla partenza per Italia, e a seguito delle voci insistenti circolate soprattutto sul web di un suo assassinio in famiglia, le autorità avevano ordinato l’esumazione del corpo e l’autopsia a inizio maggio aveva confermato la morte per strangolamento. Gli inquirenti avevano allora raccolto la confessione dei tre congiunti che avrebbero parlato di «delitto d’onore» smentendo una prima deposizione secondo cui la ragazza avrebbe rifiutato il cibo e si sarebbe ammalata dopo che era stata respinta da una famiglia con cui il padre aveva avviato trattative per il matrimonio. Sulla linea della morte per cause naturali, gli inquirenti avevano presentato all’ambasciata d’Italia a Islamabad una documentazione medica in cui si convalidava una patologia preesistente e una storia di cure mediche. Un ospedale privato citato dai tre per avvalorare la loro tesi aveva negato di avere avuto la giovane donna tra i pazienti, ma aveva dichiarato che Sana si era presentata l’11 aprile per una nausea persistente.

Ai giudici sono stati necessari 11 mesi per arrivare alla sentenza di non colpevolezza. Come spesso accade anche nei reati di blasfemia, in Pakistan il primo grado di giudizio porta con maggiore facilità a una assoluzione, almeno nei casi considerati più dubbi, mentre se si tratta di reati connessi alla difesa della fede musulmana – davanti all’insistenza di presunti testimoni accompagnati da un imam locale – spesso vengono comminate pene molto severe, di solito sconfessate nei gradi più elevati di giudizio, dove anche le tutele per i giudici sono maggiori.

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