domenica 18 dicembre 2022
Io, quarantott’ore in barella in corridoio tra dottori e infermiere impotenti Da quando curarsi è diventato un incubo?
Racconto di un’odissea, dentro un ospedale di Milano

Ansa

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Ero caduta come una sciocca, per strada, mentre sul cellulare leggevo un messaggio. Come sia caduta due giorni dopo di nuovo, non lo so. Però sono atterrata sulle medesime costole. Ospedale, radiografia, lunga attesa, diagnosi: cinque costole rotte, ma, dice il giovane medico, non abbiamo letti, torni a casa. Poche ore dopo, un dolore lancinante al petto. Lo stesso ospedale milanese, un centro di eccellenza. È molto tardi. La Tac me la fanno subito.

Poi, inizia un’odissea. Quarantott’ore in barella in corridoio, barelle tutte in fila, gente che sta peggio di me. La luce sempre accesa, senza chiudere occhio né potermi lavare. Avevo una certezza: se ti fai male vai in ospedale e ti curano, presto, gratuitamente. Questa mia sicurezza di ex baby boomer cresciuta a vaccini e a screening gratuiti, l’altra notte ha vacillato. 48 ore nel girone dell’attuale Sanità italiana. Io ero fiduciosa in quel monumentale ospedale. Sempre ne ero uscita guarita. E anche l’altra sera pensavo: sì, frettolosa la prima dimissione, ma tanto rapida poi la Tac, quando occorreva.

Così la mattina di Sant’Ambrogio me ne stavo buona nella mia barella, l’ultima in coda. Dietro di me sentivo arrivare i codici rossi: portiere sbattute, rianimazioni pronte ad accogliere gli infartuati, i feriti gravi. Qui, invece, noi: codici verdi e gialli, malconci, non moribondi. Test Covid all’entrata - in un locale, me ne stupisco, aperto. Così che dalla mia lettiga osservo quelli che vengono trasferiti in un altro reparto, in fretta. Covid. Quanti, mi stupisco – e quanto anziani. Anche qui in astanteria peraltro sono tutti oltre i 70. Hanno la febbre, o l’influenza, o sono caduti. Arrivano in pigiami scoloriti, le mani smagrite cercano di stringersi addosso la coperta. Tremano non di freddo ma di ansia, catapultati così fuori dalla loro casa, e soli: perché i parenti sono tenuti all’esterno, oppure perché sono arrivati proprio senza nessuno. Mi sfilano davanti, lo sguardo fisso sul soffitto: si lasciano condurre senza fare domande, già arresi a un destino che non dipende più da loro. Questo, almeno, fanno i più gravi, esanimi, silenziosi. Mi pare di conoscerli. Sotto le rughe le facce di bidelli di tempi lontani, di bigliettai di tram e calzolai ormai scomparsi, e ex tute blu. Sono i bambini degli anni ’40, quelli che le mamme si portavano in braccio nei rifugi. Ed eccoli ora: quel pallore, quella debolezza da infanti. Ma le barelle continuano ad arrivare.

Qualcuno, i più in forma, strepitano, alzano la voce. Nel corridoio fra la doppia fila di barelle gli infermieri passano con lo sguardo fisso a terra: una necessità perché troppe mani si allungano a domandare loro qualcosa: un bicchiere d’acqua, una flebo da sistemare. Dietro ad ogni infermiere resta una folata di “per favore” inascoltati. Non c’è tempo, il personale è scarso e sotto pressione da mesi. Addirittura, nel sovrapporsi di influenza e Covid, sembra difficile indirizzare un’ambulanza in un ospedale. Notte fonda ormai, due flebo e il dolore si è attenuato. Ci tiriamo le lenzuola sugli occhi, a proteggerci dalla luce. Dov’è il bagno, domandi, ma ce n’è uno solo per venti malati, e inevitabilmente sa di latrina. Non ricordavi questo tanfo, nelle eccellenze ospedaliere di Milano. Lavarsi la faccia, i denti, improponibile. Mi guardo allo specchio, come sembro più vecchia. Con l’avanzare delle ore le luci vengono smorzate, ma è il rumore che tiene svegli. E’ il rauco respiro del vecchio davanti a te, e il gemere di un altro: “Acqua, acqua, per favore…” Gli infermieri passano. “Ma non sente che chiede acqua?” domandi ad uno. Quello torna, senza alcuna fretta, con un bicchiere. Lo guardi in faccia: anche fra questi ragazzi c’è chi cede alla brutale fatica e si costruisce una corazza di indifferenza, e chi invece – soprattutto i più giovani –non ce la fa a lasciar sola una malata che potrebbe essere sua nonna. Nella penombra del grande ospedale sguardi cercano sguardi, o li rifiutano: pietà o indifferenza, la scelta è una frazione di secondo. Mi assopisco. Mi sveglia una ragazza con l’accento dell’Est, appena oltre una tenda. Era arrivata priva di sensi, ubriaca forse. Ora s’è svegliata e protesta: “Toglietemi subito queste flebo! Io sto benissimo, voglio andare a ballare!”. Nel silenzio dell’astanteria Oksana grida, allontanandosi: “Vado a ballare!”, e sorridono leggermente anche gli ottantenni. Ci andavano anche loro a ballare, oh, se ci andavano. (Anche a te, che così vecchia non sei ancora, la vita pare ormai girare sempre più veloce, fuori controllo, fuori dal tuo potere).

Un’alba di pioggia, buia. Da fuori lo scrosciare dell’acqua. Finalmente un camice bianco. “Le costole rotte sono sette, frattura scomposta, inoltre ci sono contusione polmonare e versamento pleurico”. La dottoressa mi guarda preoccupata: “Signora, la ricoveriamo”. Va bene, almeno avrò una stanza. Potrò lavarmi, potrò dormire. Ma le ore passano, e le barelle immobili come auto in ingorghi ferragostani. Non c’è un letto, in questo enorme ospedale. Per nessuno di questi miei vicini, che ne hanno più bisogno di me. A mezzogiorno almeno a me mio marito porta dell’acqua, dei biscotti. Per quasi tutti gli altri, nessuno. Dove sono i vostri figli? ti chiedi con pena. Chissà. Lontani, o mai avuti. Senti i medici che domandano: “Io posso mandarla a casa, ma lei ha qualcuno che la aiuta?” Quegli uomini scuotono la testa. Il medico non sa che fare, l’ospedale esplode, la coda di barelle già si allunga di nuovo. Ringrazio il forte antidolorifico che mi tiene buona. Pressione e saturazione vengono controllate periodicamente, come parametri minimi di quelle macchine che siamo. Sento in me, e attorno, la sensazione di abbandono: automobili da rottamare, questo solo siamo.

A sera infine scoppio, e mi arrabbio con una dottoressa; ma la guardo meglio, è una tirocinante, potrebbe essere mia figlia. E non invidio chi abbia un figlio medico in queste trincee bianche. Che ansia, che fatica, che paura. Ripenso ai ricoveri per il parto dei miei figli, o per brevi malattie: ospedale pubblico, vecchio magari, ma funzionava. E ci pareva normale: la Sanità gratuita per tutti, ovvio, no? É stato il Covid, o già da prima il sistema andava corrodendosi? Quale idea di fondo sta modificando la Sanità concepita in Italia nel dopoguerra? Una seconda notte in barella, ancora luce forte negli occhi, rumore, pena ( ma non cominci anche tu, forse, a non guardare chi ti sta accanto?) All’alba, vuoi solo andartene. Firmo tutto quello che volete, io me ne vado. Un signore con i capelli bianchi ha deciso come me: si veste, si mette il cappello e s’incammina. “Ma dove vai, che neanche stai in piedi?” gli grida dietro un’infermiera. Il vecchio zoppica un po’, ma nemmeno si volta a rispondere.

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