sabato 3 settembre 2022
Fu ucciso dalla mafia il 3 settembre 1982. La reazione del capoluogo dopo l’omelia del cardinale Pappalardo. Che disse: «Mentre a Roma si discute, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici»
Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1981

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1981 - Ansa Archivio Storico

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Il 3 settembre del 1982, a Palermo, fu un giorno di sangue. Uno dei tanti, dei troppi, rimasti tragicamente iscritti nelle cronache siciliane. In via Isidoro Carini, furono trucidati il prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie, Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta, Domenico Russo. I killer di Cosa nostra, con una tempesta di colpi, trasformarono una strada pacifica in un campo di battaglia. Un attentato realizzato per togliere di mezzo l’uomo che insidiava picciotti e boss.

«Qui è morta la speranza dei palermitani onesti»: qualcuno scrisse queste amarissime parole sopra un cartello che comparve nel luogo della feroce esecuzione. Era un grido disperato. Qualche giorno dopo, un altro grido, carico di forza e ribellione, riecheggiò nell’omelia pronunciata dal cardinale Salvatore Pappalardo, durante i funerali che seguirono la strage. Nella memoria è rimasta impressa la requisitoria del cardinale, imperniata su un passaggio tratto da un brano di Tito Livio: «Mentre a Roma si discute, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?».

Il clima era cupo, in quello scorcio di anni Ottanta, nel cuore di una Palermo assediata da una mattanza che non aveva risparmiato coraggiosi oppositori delle cosche. Qualche mese prima, il 30 aprile del 1982, era caduto Pio La Torre, segretario regionale del Pci, autore di incessanti iniziative antimafia, con il suo autista, Rosario Di Salvo. Il generale Dalla Chiesa era stato mandato in Sicilia per ridare certezze e fiducia a una terra ferita. Ebbe poco più di cento giorni a disposizione. Ma la città, dopo la sua morte, seppe reagire. Dal sangue versato nacquero migliaia di voci e di esperienze sul cammino del cambiamento, sulle orme generose di quell’ufficiale dei carabinieri che aveva atteso, invano, i poteri richiesti.

Oggi, a quarant’anni dall’eccidio, il calendario dell’anniversario prevede, tra l’altro, la commemorazione in via Carini, la deposizione di un omaggio floreale e la Messa in Cattedrale che sarà celebrata dall’arcivescovo Corrado Lorefice. Nessuno, tra coloro che vissero la storia come cronaca, ha mai dimenticato le cicatrici che il tempo non ha cancellato. Pino Toro, presidente nazionale dell’Ail, l’associazione italiana contro le leucemie, è un testimone diretto di quelle vicende ed è stato tra le figure forti di "Città per l’Uomo", movimento cattolico impegnato nella trincea dell’antimafia. «Il 3 settembre del 1982 – racconta – tutti, a Palermo, restammo scossi per l’accaduto. Il generale era stato accolto con diffidenza da chi aveva qualcosa da temere, ma godeva di grande popolarità tra la gente. Andava nelle scuole a predicare legalità, parlava alle persone, diceva che avremmo potuto liberarci dai vincoli mafiosi».

Il ricordo delle esequie è, appunto, incancellabile. «L’omelia del cardinale Pappalardo – continua Toro – fu uno schiaffo salutare su cui sbocciò la speranza. Non dovevamo più continuare a subire senza ribellarci. La stessa reazione l’avremmo vista dopo le stragi del ’92. I segnali si moltiplicarono. Nel novembre del 1982, pochi mesi dopo, salutammo la visita a Palermo di Papa Giovanni Paolo II, con gioia, come un evento importantissimo. Sentimmo di non essere più soli».

Salvatore Lupo, storico, professore universitario, studioso di vicende di mafia, illumina il contesto con la sua analisi: «L’omicidio Dalla Chiesa si verificò mentre era in corso il boom del terrorismo mafioso. Il generale era stato inviato in Sicilia per i meriti acquisiti nella lotta contro il terrorismo e perché era comunque un esperto, avendo prestato servizio qui. Già allora maturò l’impressione che, però, non aveva ricevuto tutto il sostegno richiesto da parte del governo. Era un simbolo. La mafia lo elesse, infatti, a simbolo pericoloso e poi lo uccise».

L’imponente risposta collettiva confermò che gli sporchi conti dei boss erano sbagliati. «La speranza non morì – continua il professore Lupo – a caro prezzo, successe esattamente il contrario. Si avviò e si consolidò quel percorso che avrebbe portato al maxi-processo, il vero momento di svolta. La stessa reazione indignata dell’opinione pubblica fu robusta e intransigente. Quel delitto fu uno dei tanti autogol di Cosa nostra che non è mai stata né invincibile, né infallibile. Anche la Chiesa scese in campo senza più ambiguità e i movimenti antimafia che sorsero videro la presenza di tantissimi cattolici militanti. La speranza era rinata».

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