sabato 5 agosto 2017
La lettera, inviata ai media attraverso la posta elettronica ufficiale della fabbrica di bombe, parla di 270 lavoratori sardi e 104 di Brescia, ma dai bilanci dovrebbero essere 152 in tutto
Gli operai della fabbrica di bombe: «No alla riconversione»
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«Nessuno di noi è interessato ad alcuna “riconversione”. Non vogliamo essere trascinati in vertenze che, anche in questo territorio, evocano solo scenari negativi, ma vogliamo solo continuare a lavorare onestamente e serenamente». Si conclude così la lettera recapitata tra la notte di giovedì e ieri alle principali testate locali sarde. L’oggetto, specificato qualche riga sopra, l’impianto Rwm di Domusnovas, nella provincia del Sud Sardegna, di cui un neonato comitato – formato da 24 realtà della galassia pacifista – chiede il passaggio al civile della produzione di ordigni. La firma, in fondo, è quella dei «270 lavoratori e lavoratrici dello stabilimento Rwm Italia di Domusnovas » e i «104 lavoratori e lavoratrici dello stabilimento Rwm Italia di Ghedi».

Nel bilancio 2016 della società, però, risultano 83 dipendenti in Sardegna e 69 nel bresciano, per un totale di 152. La cifra indicata nella missiva, probabilmente, include l’indotto, su cui non si hanno, però, stime certe. Non è l’unico elemento della lettera a suscitare interrogativi: il testo è scritto su carta intestata della Rwm. Il mittente sono due indirizzi email. Il primo è intestato alla rappresentanza sindacale unitaria dell’azienda, con dominio di quest’ultima. Il secondo a un privato, incaricato di seguire la comunicazione con i media. Entrambi sono stati contattati. Solo quest’ultimo ha risposto: «Mi attivo per farle sapere se è possibile il rilascio di qualche intervista». Poi, basta.

Il tono del documento è duro. I «lavoratori di Rwm» negano di essere vittima «di un presunto ricatto occupazionale, costretti a un lavoro che facciamo nostro malgrado, per colpa di un territorio che non offre nulla di alternativo». Al contrario, dicono di lavorare nell’impianto per «libera scelta, fatta con coscienza». Però poi sottolineano: «Oggi, senza la possibilità di lavorare in questa azienda, molti di questi colleghi sarebbero disoccupati». La proposta di riconversione, in ogni caso, viene definita «fantomatica», «ingannevole », «superficiale» e «mossa da sterile ideologia». Eppure, negli anni Novanta, si sono avuti alcuni esempi interessanti in tal senso. Come quello di Valsella, storica produttrice di mine anti-uomo poi passata a fare componenti elettronici. Grazie alla strenua battaglia di cinque operaie. «Anche da noi è stato difficile convincere i colleghi della necessità di una riconversione. La prima reazione è sempre quella di chiudersi dietro la formula: “Tanto se non facciamo noi le armi le faranno altri”. La risposta per Valsella come Rwm è la stessa: “Intanto smettiamo di farle noi”», spiega ad Avvenire Franca Faita, una delle protagoniste della lotta. Certo – prosegue – la «sensibilizzazione è un lavoro lungo e faticoso. Gli impieghi nell’industria bellica sono molto ben remunerati. Poi, ci sono le pressioni indirette. Ma ce la si può fare. La riconversione è possibile: basta la volontà».

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