sabato 21 maggio 2022
Lo chiamano “il bunkerino” ed è lo spazio in cui sono stati ricostruiti gli uffici protetti dove si incontravano i due giudici. Ora è una tappa obbligata per chi vuole ricordare
Nel bunker di Falcone e Borsellino: «Qui Palermo ritrova la memoria»

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Sono tanti gli appuntamenti che scandiscono a Palermo il trentennale della grande strage di mafia. La città si prepara a rivivere il dolore di tutti, con un ventaglio di manifestazioni già domenica 22 maggio. Fra questi, alle 17, in piazza Cataldo, l’incontro-dibattito “Trent’anni dopo: dalla violenza mafiosa alla riscoperta collettiva della legalità e di una coscienza civile che rifiuta l’odio, resiste e si ribella alla mafia” con la partecipazione dell’arcivescovo di Monreale, Michele Pennisi, il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, il presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo, il già Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, il Sostituto Procuratore Direzione Nazionale Antimafia, Domenico Gozzo.
Le celebrazioni avranno infine il loro culmine lunedì 23 maggio, giorno della strage di Capaci, con la "Fondazione Falcone" protagonista nell’organizzare il rito della memoria dalle 10 alle 11.30 con un palco speciale allestito per l’occasione al Foro Italico. Partecipano alla giornata dedicata alle commemorazioni il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, la presidente della Fondazione Falcone, Maria Falcone, oltre a ministri ed esponenti delle istituzioni. Alle 17.58, ora della strage, all’’Albero Falcone, davanti quella che era la casa del magistrato, viene suonato il silenzio in onore dei caduti. Alle 19 la Messa per le vittime, nella chiesa di San Domenico.



C’è un crocevia della memoria, a Palermo, nel cuore del Palazzo di giustizia, dove il tempo si è come fermato, lasciando spazio a una nostalgia buona che accarezza le ferite della separazione. Il suo nome è "Museo Falcone-Borsellino", ma tutti lo chiamano il bunkerino, come, in effetti, è noto. Lì, grazie alla giunta distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati, da anni sono stati ricostruiti gli uffici protetti in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lavoravano, vibrando colpi mortali alla mafia, prima di essere uccisi.
La guida di quei luoghi benedetti dalla presenza affettuosa di tante persone è Giovanni Paparcuri, eroe sopravvissuto che fa parte di quella storia e che è stato fondamentale per assemblarne i pezzi. Paparcuri era con il consigliere istruttore Rocco Chinnici, l’inventore del pool antimafia, quando il giudice fu spazzato via dal tritolo mafioso, con altre vittime innocenti, il 29 luglio del 1983. Lui stesso rimase vivo per miracolo, riportando ferite gravissime. Guarì a fatica e fu scelto da Falcone e Borsellino come stretto collaboratore, addetto alla nascente informatizzazione dei dati in occasione del maxiprocesso. Le stragi di Capaci e di via D’Amelio furono per tutti una tragedia oltre ogni immaginazione. Per "Papa" – nomignolo affettuoso impartito dai magistrati – rappresentarono una ulteriore catastrofe, ma senza alcuna resa.

​Ora, l’uomo che è stato marchiato a sangue dalle cosche conduce i visitatori in giro per il bunkerino. «Faccio tutto per i giovani che, magari, non hanno le informazioni necessarie, per i bambini, perché la speranza si costruisce con loro – dice Paparcuri –. Vado anche nelle scuole, parlo negli incontri organizzati, è un’attività necessaria. Ricordo un ragazzino che faceva lo spavaldo e mi chiese di ascoltare la storia di Totò Riina, perché, secondo lui, era forte, perché era il capo dei capi... L’ho chiamato vicino a me, gli ho raccontato delle mie cicatrici e gli ho detto che gli eroi sono i dottori Falcone e Borsellino, non i boss. Si è commosso, mi ha abbracciato e si è scusato». Oggi, per le regole di cautela che ancora il Covid consiglia, le numerose scolaresche vengono dirottate nell’aula bunker, dove si svolse il maxiprocesso. «I ragazzi fanno tante domande e questo lascia ben sperare – racconta Giovanni, il sopravvissuto –. Molti si emozionano, sì, anche tra i grandi. E qualcuno rimane scosso profondamente. Un giorno, è arrivato qui un pregiudicato, voleva salutare i giudici, ma non si sentiva degno di entrare. L’ho preso per mano, l’ho accompagnato ed è scoppiato in un pianto a dirotto».

Si accede quasi con un timore reverenziale, in quelle stanze, si esce con gli occhi rossi. L’impatto emotivo è lancinante, perché ogni particolare narra quello che è accaduto da dentro, nelle cose familiari, tanto care ai due magistrati inghiottiti dall’orrore di Cosa nostra, negli sguardi che lì si posarono.
Ci sono oggetti che hanno un valore sacro per i legami, per l’amicizia di chi li toccava. C’è la copia di un biglietto d’infinito amore scritto da Francesca Morvillo a Giovanni Falcone. Ci sono i faldoni, le macchine da scrivere, il materiale di cancelleria, le valigette blindate, mai usate. Ci sono le papere in miniatura che Falcone collezionava. «Borsellino, per scherzo, le nascondeva – racconta Paparcuri –. Poi, lasciava un foglietto di carta sulla scrivania del suo amico con la scritta: "Se la papera vuoi trovare, cinquemila lire devi lasciare...". E Falcone fingeva di arrabbiarsi, per stare al gioco».

Ritagli privati che svelano una umanità preziosa, valorizzando il coraggio di chi affrontò l’indicibile, accrescendo il rimpianto. Giovanni, "Papa", l’uomo uscito vivo dalla morsa della mafia, ripete quello che spiega sempre: «Il giudice Falcone era un uomo buono che soffriva maledettamente. Si sentiva isolato. Dormiva poco. Certe volte, dopo un breve riposo pomeridiano, io andavo da lui, con discrezione, per un caffè e lui mi veniva incontro con la faccia di un bambino che stava facendo bei sogni. Quel volto è dentro di me». Ora quei sogni riposano nel crocevia della memoria. Ed è come se chi li ha sognati dovesse tornare da un momento all’altro. Come se non fosse mai andato via.

iovanni Falcone e la moglie, Francesca Morvillo, morta con lui a Capaci.

iovanni Falcone e la moglie, Francesca Morvillo, morta con lui a Capaci. - Ansa

Le stragi costrinsero la città a uscire dall’indifferenza. Lenzuola bianche e indignazione: così si risvegliò la società civile

Alle sei meno qualche minuto del pomeriggio del 23 maggio 1992, l’ora della bomba sull’autostrada, Palermo cominciò a cambiare per sempre. Le voci che si diffusero subito somigliavano a un tam tam impazzito. Giovanni Falcone ferito, forse morto. Francesca Morvillo, in ospedale. E la scorta? Cosa era accaduto ai ragazzi della scorta? Infine, l’esatta portata della tragedia fu resa nota. Erano morti il giudice, sua moglie e chi li protesse fino all’ultimo respiro, condividendo una vita blindata e difficile: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Ma quella ferita atroce, inferta da Cosa nostra al cuore dei siciliani perbene, pose, a carissimo prezzo, le premesse di una svolta. Non fu più possibile fingere che la mafia fosse un fenomeno esecrabile con cui, magari, "convivere", un mostro a più teste che non avesse un rapporto diretto con la vita di tutti. Dalla strage di Capaci nacque una rivoluzione. La città indifferente, dei morti ammazzati, delle contiguità, di Salvo Lima e Vito Ciancimino, capì che non avrebbe più potuto voltarsi dall’altra parte. Furono tanti i palermitani, tra chi c’era già arrivato e chi si sarebbe aggiunto per indignazione, che si impegnarono in una fase di rottura e di ricostruzione.

Pino Toro era il coordinatore di "Una Città per l’Uomo", un movimento di ispirazione cattolica che, da anni, predicava la necessità di un paradigma diverso. «Ci trovavamo in un momento complicato – racconta –. Il sindaco era cambiato e la famosa Primavera, suscitata da Leoluca Orlando, sembrava già sbiadita. Tutte le istanze degli anni precedenti erano state come assorbite e respinte».
«In quel caos pomeridiano del 23 maggio – prosegue il racconto – si ebbe l’idea di andare a Palazzo delle Aquile, la casa del Comune, la tappa simbolica e obbligata dei palermitani che volevano cambiare Palermo. Le notizie erano frammentarie, ma l’angoscia era già grande. Poi si seppe tutto. Alcuni tra gli esponenti dell’antimafia più estrema, che avevano mosso critiche assurde a Giovanni Falcone, si battevano il petto. Il giudice era tornato a essere l’eroe di tutti, ma era ormai troppo tardi. La mattanza di Capaci rappresentò per noi la perdita dell’innocenza».

Seguì la strage di via D’Amelio, con la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina. Due magistrati, due servitori dello Stato uccisi. E, del secondo, si immaginava, come puntualmente accadde, che sarebbe stato la vittima successiva nell’agenda dei carnefici. In quei giorni lo sgomento giunse al suo culmine. La tensione esplose durante i funerali degli agenti della scorta di Borsellino, con le autorità strattonate e una rabbia contenuta a fatica. Ma la città che esprimeva la sua ira, al tempo stesso, preparava il suo riscatto. Sui balconi cominciarono a fiorire le lenzuola bianche, simbolo di una esplicita coscienza antimafiosa che voleva affermarsi. «Avevo appena quindici anni – racconta Salvatore Caradonna, tra i fondatori del movimento antiracket Addiopizzo –. In quel maggio, nei giorni della nostra adolescenza, eravamo sgomenti e furono proprio i fatti tragici del ’92 che spinsero noi ragazzi verso una ribellione da progettare e mettere in campo. Eravamo traumatizzati per Capaci e via D’Amelio e volevamo voltare pagina». Fu, dunque, il sangue dei martiri a cementare la riscossa di più generazioni. Fu l’innocenza spezzata dei giusti a favorire quella rivoluzione nata trent’anni fa.

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