martedì 7 aprile 2020
Stop alle produzioni non essenziali ma non degli armamenti militari e civili di cui è ignoto numero di addetti e fatturato. Opal Brescia denuncia l'opacità del comparto. L'eccezione del Banco di Prova
«In Italia nebbia fitta sulle licenze e sulla produzione di pistole e fucili»

ANSA

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L'emergenza Covid-19 ha obbligato il governo a decisioni drastiche nel settore industriale. Sia su quali aziende dovevano restare aperte per "produzioni essenziali", sia per il sostegno al settore. Il tutto mentre riprende quota il dibattito sulle priorità di spesa italiana. Difesa o Sanità? Cacciabombardieri o posti di terapia intensiva? Il problema però è che del comparto di produzione di armamenti si conosce pochissimo: né il numero dei lavoratori, né tantomeno il fatturato delle aziende che lo compongono. Un'opacità cronica che - ad esempio - ha reso generico e inefficace il dibattito sulla legittima difesa: come si può decidere se allargarla o ridurla senza sapere nemmeno quanti sono in Italia i possessori di armi e le licenze per uso venatorio e sportivo, per difesa personale, per il nullaosta all'acquisto?

L'allarme viene rilanciato da Opal, l'Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa, con sede a Brescia, che oggi ha presentato un dossier sulla produzione della armi leggere in Italia sui dati del Banco Nazionale di Prova. «Su quali basi - chiede Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal - si può considerare “strategico” un settore industriale? Innanzitutto per la sua importanza per la sicurezza dei cittadini, per la rilevanza economica in termini di contributo al PIL, infine per il suo ruolo socio-economico, cioè per quanti posti di lavoro diretti e nell’indotto abbia creato».

Sorprendentemente, «oggi per l’industria italiana delle armi nessuno di questi dati è disponibile, cioè non è ricavabile né dalle statistiche nazionali né attraverso studi scientifici di settore compiuti da enti indipendenti». Solo due gli spiragli da cui si riesce a gettare uno sguardo, molto parziale, sul settore. Il primo è quello aperto dal 1990 dalla legge 185/90 sull'esportazione di armi militari «e quindi il suo contributo alla bilancia commerciale del paese, che è praticamente irrilevante (circa 3 miliardi di esportazioni, pari allo 0,63%, a fronte di 476 miliardi di esportazioni complessive dal nostro Paese)».

Per il resto, i dati che circolano - sostiene Opal - «spesso sono solo quelli diffusi dalle stesse aziende produttrici e dalle loro rappresentanze lobbistiche, semplicemente “autocertificati”, per difendere gli interessi di settore». Una carenza che si ripresenta anche il settore delle armi leggere, considerato un fiore all’occhiello dell’industria manifatturiera italiana, «l’unico al mondo in grado di competere con lo strapotere di produttori Usa». L’unico varco nel mondo semisegreto dei produttori di pistole e fucili italiani è costituito dunque dai dati annualmente diffusi dal Banco nazionale di prova per le armi da fuoco portatili e per le munizioni commerciali di Gardone Val Trompia, a Brescia».

Il Banco nazionale di prova (Bnp) è un ente pubblico incaricato di provare allo sparo ogni singola arma, corta o lunga, prodotta in Italia. Un test obbligatorio anche per le armi importate dai paesi che non prevedono questa prova. Dai dati del Bnp - gli unici disponibili sulla produzione di armi leggere ad uso civile - emerge dunque che dal 2005 al 2019 sono stati poco meno di 9 milioni, le armi corte e lunghe per tiro sportivo, caccia e difesa prodotte in Italia. Per la precisione 6 milioni 15.637 armi lunghe e 2 milioni 776.263 armi corte. In flessione del 6,7% la produzione del 2019: oltre 374 mila fucili, nel 2018 erano stati 375 mila, ma soprattutto 128 mila pistole che nel 2018 erano state 179 mila.

Negli ultimi 15 anni insomma sono stati introdotti dalle aziende italiane circa 10 milioni di armi, beni durevoli destinati ad accumularsi, quasi mila ogni anno. «Una cifra rilevante, su cui riflettere - è l'invito di Opal - in termini di bilancio sociale e sostenibilità del “distretto produttivo”». Aziende produttrici e associazioni di categoria, sostengono i ricercatori dell'Osservatorio, «dovrebbero prestare attenzione alle conseguenze – intenzionali o accidentali – derivate dall’uso dei propri prodotti». Quello che fanno da anni altri settori «con l’introduzione di misure preventive, accessori salvavita e prassi per la sicurezza come ad esempio nel settore automobilistico, nel lavoro edile, per le macchine utensili industriali». Ma l'attenzione del settore, secondo Opal, è stata tutta e sulle «normative di controllo dell’export e sulle limitazioni all’acquisto e al possesso, misure esistenti in tutti i paesi occidentali». Un'azione di «disinformazione portata avanti in nome di un liberismo assai poco attento alle ricadute sociali».

Altro buco nero nell'informazione sulle armi in Italia riguarda anche le istituzioni. Il ministero dell'Interno infatti non rende noto il numero di armi e di licenze, nonostante prefetture e questure raccolgono tutte le domande per la concessione e il rinnovo di permessi e porto d'armi. «Dati di questa importanza nel dibattito pubblico e in temi di grave allarme sociale – come la legittima difesa e la violenza in ambito famigliare – dovrebbero essere pubblici, cioè pubblicati e aggiornati sul sito del Ministero dell’Interno, che peraltro già li raccoglie ed elabora». Nulla di tutto questo. «Il Viminale ci informa sul numero di venditori ambulanti fermati sulle spiagge - dice il ricercatore di Opal Giorgio Beretta - ma non su quante sono le armi nelle mani e nelle case degli italiani».


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