martedì 10 giugno 2014
Due ore di dialogo del vescovo di Oppido-Palmi con 70 reclusi per mafia nella struttura di massima sicurezza.
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Ma voi alla Chiesa cosa chiedete? Cosa potrebbe fare per voi? Cosa poteva fare e non ha fatto? In cosa ha mancato?». Comincia così, con queste domande dirette, il dialogo tra il vescovo di Oppido-Palmi, monsignor Francesco Milito e 70 detenuti di massima sicurezza del carcere di Palmi, tutti 416bis, detenuti per mafia. Incontro assolutamente inedito. E dialogo è stato davvero, per più di due ore. Con monsignor Milito anche una ventina di sacerdoti, il cappellano don Silvio Misiti, il presidente del tribunale di sorveglianza Vincenzo Pedone e il direttore del carcere Romolo Pani. Un penitenziario particolare quello di Palmi, negli anni ’70-80 supercarcere per i terroristi, oggi ospita 200 detenuti, 150 dei quali al 41bis, soprattutto ’ndrangheta. «Questo non è un convegno ma un dialogo con voi - insiste il vescovo -. Oggi vorremmo uscire col carcere dentro di noi». E i detenuti non stanno certo in silenzio. Sono molti nel piccolo teatro ad alzare la mano per porre domande. Educatamente, quasi timidamente. «Un detenuto condannato per mafia si può reinserire nella società dopo il carcere?». Domanda secca, a farla è un esponente di spicco di una nota famiglia mafiosa calabrese. «È una domanda radicale – risponde il vescovo –. Certo che è possibile ma bisogna imparare che la vera libertà non è il male ma il bene». «È vero», dice quasi a bassa voce il mafioso. «Ma cosa fa la Chiesa per noi, per le nostre famiglie?», incalza un altro detenuto. «Bisogna andare da chi rappresenta la Chiesa sul territorio. Se non si hanno risposte si va dal vescovo. Andate alla Caritas. Venga da noi», è l’invito di monsignor Milito. C’è anche chi cita il Vangelo. «Ci insegnate a leggere la Bibbia ma lo dovrebbero fare anche i magistrati. Il padre recupera il figliol prodigo, il pastore cerca la pecorella smarrita. E noi? Nessuno ci recupera». Questa volta è il magistrato a rispondere. «Il padre misericordioso non può essere il giudice, non si possono chiedere a lui occasioni di lavoro. Tocca allo Stato. Ma il percorso carcerario dipende da voi, potete creare delle opportunità e noi concedere premialità». E il vescovo chiarisce che «ci vuole il rispetto delle persone che hanno sbagliato ma anche delle vittime, ricordatelo sempre». E il tema non cambia. «È giusto che uno paghi  se ha sbagliato, ma ci deve essere anche data la possibilità di essere uguali agli altri, di essere reinseriti». Questa volta è il direttore a ricordargli che «lei grazie al carcere sta completando i suoi studi universitari. Con tutti i suoi limiti lo Stato sta facendo qualcosa per migliorare la sua formazione. Anche se so bene che una volta uscito sarà difficile il reinserimento e per questo dovremmo creare un ventaglio più ampio di opportunità».  Speranza ma con chiarezza. «Io non mi faccio illusioni - aggiunge il vescovo -. So che ho a che fare con chi fa della morte la sua vita e del carcere la sua casa, ma dove sta scritto che debba essere sempre così? Il mio desiderio è che le carceri si spopolino. Noi non siamo attrezzati a fare miracoli ma con le nostre forze tutto sarà fatto». Così arrivano anche richieste pratiche. Come quella di un tossicodipendente. «Prendo 10 psicofarmaci al giorno e devo ringraziare don Silvio e gli operatori del carcere se no sarei già morto. Ma ho bisogno di entrare in una comunità. Ho chiesto ma non mi rispondono». Monsignor Milito prende nota. «Sarà mia cura capire perché. Mi lasci il suo nome». Poi si torna alle questioni generali. Così un trentenne si sfoga. «Io penso che la Calabria non andrà avanti se non cambia la mentalità. Voi potete essere di aiuto e le carceri potrebbero svuotarsi». Monsignor Milito gli chiede se ha avuto i sacramenti. «Sì tutti». «Te li avranno spiegati, ma una cosa è conoscere e altro è rispettare. E allora ti devi domandare cosa fai per riscattare questa terra. Devi essere il primo a non collaborare con il male. E il più grande male della Calabria è il fatalismo: è sempre andato così e non cambierà. No, questo è il primo carcere. Il mondo non è in mano del male ma di Dio che però vuole la nostra collaborazione». Si sta per chiudere quando alza la mano un ultimo detenuto. «Ci avete regalato due ore di libertà, col dialogo ma anche col richiamo alle regole. Grazie eccellenza». Ma non è finita qui. Il 18 giugno è già previsto un incontro, di dialogo e festa, tra il vescovo, i sacerdoti e i familiari dei detenuti. Perché, ricorda don Silvio, «qui non è solo repressione, qui c’è chi vi ama».
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